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Benvenuti dunque, ancora una volta, nell’universo di Lois McMaster Bujold e della saga di Miles Vorkosigan.

James Gunn

Lawrence, Kansas

NOTA DELL’AUTRICE

Barrayar mi ha colta di sorpresa. Non ero partita per scrivere un libro importante ed ero già a buon punto nella stesura quando sono stata assalita da una sorta di "demone" tematico. Il mio primo romanzo, Shards of Honor, era stato concepito come un libro molto più lungo, cioè iniziava con il primo incontro fra Aral e Cordelia e finiva con la nascita di Miles. Mentre cercavo di arginare la mole straripante di materiale e di eventi, raggiunsi un punto (più o meno 80 pagine dopo l’attuale conclusione del romanzo) in cui mi resi conto di aver perso definitivamente il controllo di quello che stavo scrivendo. Da più parti mi ripetevano che gli editors mostrano una certa riluttanza a esaminare manoscritti di 800 cartelle, soprattutto se l’autore è un perfetto sconosciuto, e l’avvento di nuovi personaggi con relative trame secondarie dopo 400 pagine indicava senz’ombra di dubbio che avevo oltrepassato il limite della storia e che stavo già scrivendo il seguito. Allora non esitai a fare marcia indietro, fermandomi a quello che sarebbe diventato l’attuale finale di Shards of Honor.

Scartai tutto quello che avevo scritto dopo quel punto, archiviai il dattiloscritto in solaio e non ci pensai più. Ma sei anni (e sei libri) dopo, in occasione della mia partecipazione come ospite d’onore alla Philcon ’89, Darrell Schweitzer mi chiese un racconto breve o un estratto per il programma della manifestazione. Non avevo racconti sottomano, ma subito mi tornò alla mente una delle scene che a suo tempo avevo scartato. Sfogliando e rileggendo la copia del dattiloscritto, decisi che in fondo non era poi così male e cominciò a serpeggiare dentro di me un insano desiderio di completare il progetto originale. Mi sentivo piuttosto a disagio perché sapevo che l’idea non era propriamente commerciale (ma come, un seguito diretto al mio libro meno fortunato, fondato essenzialmente sui personaggi e neppure troppo fantascientifico?) Insomma, mi sembrava più che altro un capriccio… dopo tutto, chi si prende la briga di scrivere a proposito della madre dell’eroe? Tuttavia, per ragioni che solo poco a poco mi divennero chiare, era una storia che volevo assolutamente raccontare.

Il tempo trascorso dalla stesura originale è stato davvero provvidenziale, perché nel frattempo avevo acquisito una certa padronanza della struttura del romanzo e, soprattutto, avevo accumulato alcuni anni di esperienza come madre e come essere umano. Perché infatti, nonostante l’intrigo politico-militare che muove in superficie la vicenda, Barrayar si è poi rivelato in realtà un romanzo su ciò che significa essere madre. Attraverso coppie parallele di personaggi — Aral e Cordelia, Kou e Drou, Padma e Alys Vorpatril, la principessa Kareen e il conte Vordarian, con l’aggiunta di Bothari, del simulatore uterino, nonché dell’anziano nonno Piotr — sono riuscita a prendere in esame varie costellazioni emotive legate alla maternità, o comunque al ruolo di genitori, ciascuna delle quali si riflette nell’altra, come un’alleanza per la vita in un mondo di morte.

Lois McMaster Bujold

CAPITOLO PRIMO

Ho paura. Di fronte alla finestra del salotto, al terzo piano di Casa Vorkosigan, Cordelia alzò una mano a scostare la tendina e guardò la strada inondata dal sole. La vettura da superficie lunga e argentea appena entrata dal cancello irto di punte metalliche stava rallentando sul vialetto, fra le siepi di piante importate dalla Terra, diretta alla corsia semicircolare che serviva il portico anteriore. Una vettura ufficiale. Quando lo sportello del compartimento passeggeri scivolò verso l’alto ne emerse un militare dal portamento rigido, in uniforme verde. Malgrado la sua miopia Cordelia non ebbe difficoltà a riconoscere il capitano Illyan, bruno e come al solito senza il berretto. L’uomo raggiunse il portico a lunghi passi e sparì alla vista. Suppongo che non ci sia bisogno di preoccuparsi, finché la Sicurezza Imperiale non viene a cercarti nel cuore della notte. Ma un residuo di quella paura rimase, freddamente sepolto nel suo stomaco. Perché sono venuta qui a Barrayar? Cosa ne ho fatto di me stessa, della mia vita?

Nel corridoio si avvicinarono passi di stivali pesanti. La porta del salotto si aprì; il sergente Bothari mise dentro la testa, e nel trovarla lì fece udire un grugnito soddisfatto. — Milady? È ora di andare.

— Grazie, sergente. — Cordelia lasciò ricadere la tendina e si volse a controllare un’ultima volta il suo aspetto nello specchio a muro sopra l’arcaico caminetto. Difficile credere che la gente bruciasse ancora sostanze vegetali per liberare chimicamente il loro contenuto energetico.

Sollevò il mento sopra il rigido colletto bianco della camicetta, sistemò meglio i polsini della sua blusa color bronzo e spazzolò via un immaginario granello di polvere dalla gonna pieghettata, lunga come si conveniva a una donna di classe Vor, anch’essa bronzea per intonarsi alla blusa. Quel colore, lo stesso della sua vecchia uniforme della Sorveglianza Astronomica Betana, ebbe il potere di rilassarle i nervi. Si passò una mano sui capelli rossi, divisi nel mezzo e tenuti discosti dal volto da due pettini smaltati, e li spostò dietro le spalle per lasciarli ricadere morbidamente lungo la schiena. Lo specchio le rimandava l’immagine di un volto pallido, dagli occhi grigi. Un naso un po’ ossuto, il mento di un filo troppo lungo, ma senza dubbio una faccia decente, buona per quel che serviva a lei.

Be’, se voleva apparire delicata e squisita non aveva che da mettersi a fianco del sergente Bothari. Il suo volto truce, legnoso, incombeva su di lei dall’altezza di due metri. Cordelia s’era sempre considerata alta, ma accanto a lui gli arrivava appena alla spalla. Aveva zigomi tagliati con l’accetta, naso a becco, e un’espressione sospettosa e vigile a cui il taglio di capelli militaresco dava qualcosa di criminale. Neppure l’elegante livrea di Casa Vorkosigan, marrone scuro con lo stemma del Conte ricamato in argento, riusciva a migliorare lo sgraziato aspetto di Bothari. Ma anche la sua è una faccia decente, buona per quel che serve a lui.

Un guardiano in livrea. Che razza di concetto. A cosa faceva la guardia? Alle nostre vite, alle nostre fortune. E alla nostra sacra onorabilità, per dirne un’altra. Cordelia gli rivolse un cordiale cenno del capo, nello specchio; poi uscì e gli tenne dietro nei meandri di Casa Vorkosigan.

Avrebbe dovuto imparare al più presto a muoversi nel complicato interno di quella residenza. Era imbarazzante accorgersi d’essersi persa in casa propria e dover chiedere la strada a una guardia o a un servo di passaggio. Nel mezzo della notte, con indosso soltanto un accappatoio.

Dopo alcune svolte giunsero alla sommità della larga scalinata circolare che s’incurvava graziosamente fino all’atrio pavimentato in piastrelle bianche e nere del pianterreno. I suoi passi leggeri seguivano quelli lunghi e misurati di Bothari. Le ampie dimensioni della gonna la facevano sentire come se, più che scendere, si stesse paracadutando inesorabilmente giù per quella spirale.

Ai piedi della scala un giovanotto alto, appoggiato a un bastone da passeggio, sollevò lo sguardo nel sentire l’eco dei loro passi. Il volto del tenente Koudelka era regolare e piacevole quanto quello di Bothari era rozzo, e alla vista di Cordelia si aprì in un sorriso. Neppure le sottili rughe di sofferenza intorno agli occhi e agli angoli della bocca invecchiavano i suoi lineamenti. Indossava l’uniforme imperiale verde, identica salvo i gradi a quella del capitano Illyan. I lunghi polsini e l’alto colletto della giacca celavano le sottili cicatrici rosse che s’intrecciavano su metà del suo corpo, ma Cordelia poteva vederle con gli occhi della mente. Nudo, Koudelka avrebbe potuto posare come modello vivente per una conferenza sulla struttura del sistema nervoso umano: ognuna di quelle linee rappresentava un nervo morto, espiantato e sostituito da una treccia di fili d’argento. Il tenente Koudelka non s’era ancora del tutto abituato al suo nuovo sistema nervoso. Diciamo la verità: i chirurghi, qui, sono macellai incapaci e ignoranti. Non era stato certo un lavoro all’altezza degli standard betani. Ma Cordelia non consentiva che un solo accenno di quei giudizi privati trapelasse sul suo volto.