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Kivrin si chiese cosa potesse essere il male azzurro… soffocamento, forse, o apoplessia… e se quel Fratello Hubard fosse il cappellano che la suocera di Eliwys era tanto ansiosa di rimpiazzare. Era consuetudine che le famiglie nobiliari si portassero dietro in viaggio il proprio prete, mentre pareva che Padre Roche fosse il prete del villaggio, probabilmente ignorante e forse addirittura illetterato, anche se lei aveva capito benissimo il suo latino. Il prete era stato gentile, le aveva tenuto la mano e le aveva detto di non aver paura.

Ci sono persone gentili anche nel medioevo, Signor Dunworthy, pensò. Padre Roche ed Eliwys e Agnes.

— Mio padre mi ha detto che quando arriverà da Bath mi porterà una gazza — aggiunse Agnes. — Adeliza possiede un falcone, e qualche volta mi permette di tenerlo — spiegò poi, e protese il braccio piegato con il pugnetto pieno di fossette chiuso a reggere il falcone appollaiato su un guanto immaginario. — Io ho un cane.

— Come si chiama? — chiese Kivrin.

— Io lo chiamo Blackie — rispose la bambina, anche se Kivrin era certa che quella fosse la versione del nome fornita dal traduttore… più probabilmente lei aveva detto qualcosa come Blackamon o Blakkin. — Lo chiamo così perché è nero. Tu hai un cane?

Kivrin era troppo sorpresa per rispondere: aveva parlato ed era stata compresa… e Agnes non stava mostrando neppure di trovare strana la sua pronuncia. Aveva parlato senza pensare al traduttore e senza aspettare che questo traducesse le sue parole, e forse il segreto era tutto qui.

— No, non ho un cane — rispose, cercando di ripetere ciò che aveva fatto poco prima.

— Insegnerò alla mia gazza a parlare, le insegnerò a dire: «Buon Giorno, Agnes»

— Dov'è il tuo cane? — chiese Kivrin, per fare un altro tentativo. Le parole le sembravano diverse, più lievi e con quella sommessa inflessione francese che aveva colto nel modo di esprimersi delle due donne.

— Vuoi vedere Blackie? È nella stalla — spiegò Agnes.

Sembrava una risposta diretta, ma era difficile stabilirlo a causa del modo in cui parlava la bambina, che poteva aver soltanto fornito un'informazione spontanea. Per essere sicura, Kivrin avrebbe dovuto porre una domanda su un argomento del tutto diverso e che prevedesse soltanto una risposta.

Agnes stava accarezzando le morbide coltri del letto, canticchiando sommessamente fra sé.

— Come ti chiami? — domandò Kivrin, tentando di permettere al traduttore di assumere il controllo più assoluto. Esso trasformò la sua frase in inglese moderno in qualcosa che suonava come «How are youe cleped?» e anche se lei non era sicura che fosse la formula giusta, la bambina rispose senza esitazione.

— Agnes — disse subito. — Mio padre afferma che potrò avere un falcone quando sarò abbastanza grande da poter cavalcare una giumenta. Per adesso ho un pony — aggiunse, poi smise di accarezzare il copriletto e puntellò i gomiti sul bordo del letto, appoggiando il mento fra le piccole mani. — Io conosco il tuo nome — dichiarò, in tono compiaciuto. — Ti chiami Katherine.

— Cosa? — esclamò Kivrin, senza capire. Come avevano fatto a stabilire che si chiamava Katherine? Il suo nome sarebbe dovuto essere Isabel… come potevano pensare di sapere chi lei fosse?

— Rosemund ha detto che nessuno sa il tuo nome — spiegò la bambina, sempre con aria compiaciuta, — ma io ho sentito Padre Roche dire a Gawyn che ti chiami Katherine. Rosemund ha detto anche che non puoi parlare, eppure lo sai fare.

Con l'occhio della mente Kivrin rivide d'un tratto il prete che si chinava su di lei, con il volto oscurato dalle fiamme che sembravano danzarle costantemente davanti agli occhi.

— Qual è il tuo nome, perché tu possa confessarti? — le aveva chiesto.

E ricordò anche come lei avesse cercato di formare la parola nonostante la sua bocca fosse tanto arida che non riusciva quasi a parlare, spronata dal timore che sarebbe morta e che a casa non avrebbero mai saputo che ne era stato di lei.

— Ti chiami Katherine? — stava intanto chiedendo Agnes, e lei poteva sentire con chiarezza la sua vocetta sotto la versione del traduttore: il nome suonava esattamente come Kivrin.

— Sì — rispose, sentendosi in gola il nodo del pianto.

— Blackie ha un… — le disse Agnes, ma il traduttore non colse l'ultima parola. Karette? Chavette? — È rosso. Lo vuoi vedere?

E prima che Kivrin potesse fermarla oltrepassò di corsa la porta ancora parzialmente aperta.

Kivrin attese nella speranza che lei tornasse e che un karette non fosse una cosa viva, desiderando di aver chiesto dove si trovava e da quanto tempo era lì, anche se probabilmente Agnes era troppo piccola per saperlo. Sembrava non avere più di tre anni, ma naturalmente in quel caso sarebbe apparsa molto più piccola di un bambino di tre anni dell'era moderna, quindi doveva averne cinque o forse sei.

Avrei dovuto domandarle quanti anni ha, si rimproverò, poi si rese conto che la bambina poteva ignorare anche la propria età. Giovanna D'Arco non aveva saputo dire quanti anni avesse quando l'Inquisitore glielo aveva chiesto, nel corso del processo.

Se non altro, adesso era in grado di fare domande. Il traduttore non era rotto, doveva essere stato messo in stallo temporaneo dalla strana pronuncia di quella gente o essere stato in qualche modo influenzato dalla sua febbre, ma adesso era a posto e Gawyn sapeva dove si trovava il sito, poteva accompagnarla là.

Si sollevò a sedere più eretta contro i cuscini in modo da vedere la porta, e lo sforzo le causò un'altra fitta al petto accompagnata da vertigini e da emicrania. Ansiosamente si portò una mano alla fronte, che sembrava calda… però poteva anche dipendere dal fatto che le sue mani erano fredde. La stanza era gelida, e durante la sua escursione fino al pitale lei non aveva visto traccia di un braciere o anche soltanto di uno scaldaletto.

Possibile che gli scaldaletto non fossero ancora stati inventati? Dovevano esistere di già, altrimenti in che modo la gente era potuta sopravvivere alla Piccola Era Glaciale? Il freddo era spaventoso.

Cominciò a rabbrividire… doveva essere la febbre che tornava a salire. Ma era previsto che lo facesse? Durante il corso di Storia della Medicina lei aveva studiato che il cadere della febbre lasciava il paziente indebolito, ma poi la febbre non tornava a salire, giusto? Certo che lo faceva, per esempio nel caso della malaria che comportava brividi, mal di testa, sudore, febbre ricorrente. Certo che la febbre tornava a salire.

Comunque, era evidente che lei non aveva la malaria, perché quella malattia non era mai stata endemica in Inghilterra e comunque le zanzare non potevano sopravvivere ad Oxford nel cuore dell'inverno, senza contare che i sintomi non erano quelli giusti in quanto non aveva sudato e i brividi erano dovuti esclusivamente alla febbre.

Il tifo causava emicrania e febbre alta, e veniva trasmesso dai pidocchi e dalle mosche dei topi, entrambi flagelli endemici nell'Inghilterra del medioevo e probabilmente anche nel letto su cui era sdraiata, ma il periodo di incubazione era troppo lungo… quasi due settimane.

L'incubazione della febbre tifoidea era di pochi giorni appena e quella malattia causava mal di testa, dolore agli arti e febbre alta; non le pareva che fosse una febbre ricorrente, però le sembrava di rammentare che raggiungesse i picchi più elevati di notte, il che significava che la temperatura scendeva durante il giorno per poi salire nelle ore notturne.

Si chiese che ore fossero. Eliwys aveva detto che stava facendo buio e la luce che filtrava dalla finestra coperta dal lino incerato si era fatta azzurrina, ma le giornate di dicembre erano corte ed era possibile che fosse soltanto metà pomeriggio. Anche il fatto che lei si sentisse assonnata non era un'indicazione attendibile, perché aveva continuato ad assopirsi a intervalli per tutto il giorno.