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— L'uguaglianza, la parità, non è dunque la regola generale? Sono forse mentalmente inferiori?

— Non lo so. Apparentemente, esse non diventano frequentemente grandi matematiche, o compositrici di musica, o inventrici, o pensatrici astratte. Ma non è perché sono stupide. Fisicamente, sono meno muscolose, ma un po' più resistenti degli uomini, e più adattabili. Psicologicamente…

Dopo queste parole, aveva fissato per molto tempo la stufa ardente, e aveva scosso il capo.

— Harth — mi disse, — non posso dirvi come sono le donne. Non ho mai pensato molto a questo problema in astratto, sapete, e… Dio!… ormai, in pratica ho dimenticato. Sono qui da due anni… Non sapete. In un certo senso, per me le donne sono più aliene di quanto non lo siate voi. Con voi, almeno io condivido un sesso, in ogni caso… — Distolse lo sguardo e rise, a disagio e inquieto e impacciato. I miei sentimenti erano complessi, e lasciammo cadere l'argomento.

Yrny Thanern. Diciotto miglia, oggi, est-nord-est, usando la bussola, sugli sci. Ci siamo liberati dai costoni e dai crepacci dei bordi nella prima ora di viaggio. Entrambi abbiamo le cinghie, io davanti, dapprima, per sondare il terreno, ma non c'è più bisogno di prove: la neve granulosa è alta cinquanta, sessanta centimetri, sopra il ghiaccio solido, e sulla neve del ghiacciaio c'è uno strato di qualche centimetro di neve fresca, bianca, solida, la neve dell'ultima nevicata, con una buona superficie. Né per noi, né per la slitta, si trattava di un pericolo, e tirare la slitta era così semplice, la slitta pareva cosi leggera, che mi sembrava difficile credere che stavamo ancora tirando circa cento libbre a testa. Durante il pomeriggio facemmo dei turni, come si può fare facilmente su questa splendida superficie. È un peccato che tutto il duro lavoro di scalata e di avvicinamento al ghiacciaio, che il faticoso percorso sotto la pioggia, e tra le rocce, e le ceneri, e sotto i lapilli del vulcano, sia avvenuto quando il carico era ancora così pesante. Adesso è tutto leggero. Troppo leggero: mi ritrovo a pensare troppo spesso al cibo. Mangiamo, dice Ai, come libellule. Non so cosa intenda dire esattamente, ma so che intende lamentarsi per la ristrettezza della nostra dieta. Per tutto il giorno, siamo andati veloci sulla pianura di ghiaccio livellata, una pianura bianchissima sotto un cielo grigio-azzurro, tra orizzonti piatti, a eccezione delle poche vette nere che appaiono ancora in lontananza, dietro di noi, e a eccezione di una foschia di tenebre, il respiro di Drumner, ancora più indietro. Niente altro: il sole velato, il ghiaccio.

CAPITOLO DICIASSETTESIMO

Un mito orgota della creazione

Le origini di questo mito sono preistoriche; è stato registrato in diverse forme. Questa versione, probabilmente la più primitiva, è tratta da un testo scritto pre-Yomesh, ritrovato nella Caverna-Tempio di Isenpeth, nel Retroterra del Gobrin.

In principio non c'era nulla, solo il ghiaccio e il sole.

Durante molti anni, il sole, splendendo, sciolse il ghiaccio e in esso apparve un grande crepaccio. Nei fianchi di questo crepaccio erano grandi forme di ghiaccio, e non esisteva il fondo. Gocce d'acqua si sciolsero dalle forme di ghiaccio nei fianchi dell'abisso e caddero e caddero e caddero ancora. Una delle forme di ghiaccio disse, — io sanguino. — Un'altra delle forme di ghiaccio disse, — io piango. — Una terza disse, — io sudo.

Le forme di ghiaccio salirono dai fianchi dell'abisso, e vennero sulla pianura di ghiaccio. Colui che aveva detto «Io piango» alitò sul ghiaccio e fondendolo creò i mari e i fiumi. Colui che aveva detto «Io sudo» raccolse terra e acqua di mare e con esse creò alberi, piante, erbe e grano e semi nei campi, animali, e uomini. Le piante crescevano nel suolo e nel mare, le bestie correvano sulla terra e nuotavano nel mare, ma gli uomini non si svegliarono. Essi erano trentanove. Dormivano sul ghiaccio e non si muovevano.

Allora le tre forme di ghiaccio si curvarono e sedettero, tenendo alte le ginocchia, e si lasciarono sciogliere dal sole. Come latte si sciolsero, e il latte scorrendo giunse alle bocche dei dormienti, e i dormienti si svegliarono. Quel latte è bevuto soltanto dai figli degli uomini, e senza di esso gli uomini non potrebbero svegliarsi alla vita.

Il primo a destarsi fu Edondurath. Era così alto che quando si alzò la sua testa squarciò il cielo, e la neve cadde. Egli vide gli altri muoversi e svegliarsi, ed ebbe paura di loro, quando essi si mossero, così li uccise uno dopo l'altro, con un colpo dei suoi pugni. Trentasei ne uccise. Ma uno di loro, quello prima dell'ultimo, fuggì. Haharath era il suo nome. Corse lontano sulla pianura di ghiaccio e sopra le lande della terra. Edondurath corse dietro di lui e alla fine lo raggiunse e lo colpì. Haharath morì. Allora Edondurath ritornò al Luogo di Nascita, sul Ghiaccio di Gobrin dove i corpi degli altri giacevano, ma l'ultimo se ne era andato: era fuggito mentre Edondurath aveva seguito Haharath.

Edondurath costruì una casa dai corpi congelati dei suoi fratelli, e aspettò là dentro quella casa che l'ultimo rimasto ritornasse. Ogni giorno uno dei cadaveri parlava, dicendo, — egli brucia? Egli brucia? — Tutti gli altri cadaveri dicevano con lingue gelate, — no, no. — Poi Edondurath entrò in kemmer nel sonno, e si mosse e parlò a voce alta in sogno, e quando si svegliò i cadaveri stavano tutti dicendo, — egli brucia! Egli brucia! — E l'ultimo fratello, il più giovane, li udì dire questo, e venne nella casa dei corpi, e là si accoppiò con Edondurath. Da questi due nacquero le nazioni degli uomini, dalla carne di Edondurath, dal grembo di Edondurath. Il nome dell'altro, il fratello più giovane, il padre, il suo nome non è conosciuto.

Ciascuno dei figli nati da loro ebbe un frammento di tenebre che lo seguiva dovunque egli andasse sotto la luce del giorno. Edondurath disse, — perché i miei figli sono così seguiti dalle tenebre? — Il suo kemmeri disse, — poiché essi sono nati nella casa della carne, perciò la morte segue, alle loro calcagna. Essi sono nel mezzo del tempo. In principio c'erano il sole e il ghiaccio, e non c'era ombra. Alla fine, quando saremo finiti, il sole divorerà se stesso e l'ombra mangerà la luce, e non rimarrà nulla, all'infuori del ghiaccio e delle tenebre.

CAPITOLO DICIOTTESIMO

Sul ghiaccio

A volte, quando mi sto addormentando in una stanza buia e silenziosa, per un momento ho una grande e preziosa illusione che mi viene dal passato. La parete di una tenda si solleva sopra il mio viso, non visibile, ma audibile, un piano inclinato di suono sommesso: i sussurri della neve che cade. Non si vede niente. L'irradiazione luminosa della stufa esiste solo come una sfera di calore, un cuore di calore. La debolissima umidità e l'abbraccio stretto del mio sacco a pelo; il suono della neve; appena discernibile, il respiro di Estraven che sta dormendo; tenebre. Niente altro. Noi siamo all'interno, noi due, al riparo, in riposo, al centro di tutte le cose. Fuori, come sempre, giace la grande oscurità, la solitudine fredda della morte.

In quei momenti così fortunati, mentre mi addormento, so al di là di ogni dubbio quale sia il vero centro della mia vita, quel tempo che è passato e perduto e pure è permanente, il momento durevole, il cuore del calore.

Non sto cercando di dire che sono stato felice, durante quelle settimane nelle quali ho spinto e tirato la slitta, attraverso una coltre di ghiaccio, nel cuore dell'inverno. Ero affamato, esausto, e spesso ansioso, e tutto peggiorava mano a mano che si procedeva. Certamente non era un tempo felice. La felicità deve avere qualcosa a che fare con la ragione, e solo la ragione la merita, e la ottiene. Quel che mi era dato era la cosa che non si può meritare, né ottenere, né conservare, e che spesso non si riconosce neppure sul momento; intendo dire la gioia.