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Il compito di accamparci, assicurarci di tutto e assicurare ogni cosa, toglierci gli indumenti esterni, l'uno con l'altro, tutta la neve che era rimasta aggrappata, e così via, era estenuante. A volte pareva che non ne valesse la pena. Era così tardi, così freddo, e si era così stanchi, che sarebbe stato più semplice distendersi in un sacco a pelo al riparo della slitta, e non disturbarsi a montare la tenda, e tutto il resto. Ricordo come fosse chiaro questo, per me, durante certe serate, e con quale amarezza mi risentivo per l'insistenza metodica, tirannica del mio compagno, il quale voleva che tutto fosse fatto nella maniera corretta, e con la massima cura. In quei momenti l'odiavo, l'odiavo veramente, con un odio che si levava direttamente dal pozzo della morte che giaceva dentro il mio spirito. Odiavo le domande dure, complicate, ostinate, le richieste imperiose, impossibili, faticose che lui mi faceva, perentoriamente, parlando nel nome della vita.

Quando tutto era fatto, potevamo entrare nella tenda, e quasi subito il calore della stufa Chabe poteva sentirsi tutt'intorno, come un grembo protettivo, sicuro, che circondava ogni cosa dolcemente. Una cosa meravigliosa, un prodigio inarrivabile, ecco cosa ci circondava: il calore. La morte e il freddo erano altrove, fuori.

Anche l'odio veniva lasciato fuori. Mangiavamo, e bevevamo, e dopo aver mangiato e bevuto, cominciavamo a parlare. Quando il gelo era terribile, estremo, perfino l'eccellente isolamento offerto dalla tenda non poteva tenerlo fuori, e noi stavamo distesi nei nostri sacchi a pelo, tenendoci il più vicino possibile alla stufa. Una sottile peluria di brina si formava sulla parete interna della tenda. Aprire la porta-valvola significava lasciar entrare una zaffata di gelo che istantaneamente si condensava, riempiendo la tenda di un turbine nebuloso di pulviscolo di neve. Quando c'era una tormenta, aghi di aria gelida penetravano dalla sottilissima bocca di aerazione, che era perfettamente protetta, con un sistema elaborato che era quanto di meglio Gethen avesse saputo creare, e che pure era insufficiente a fermare quelle sottilissime emanazioni del vento esterno; e un'impalpabile polvere di farfalle nevose rendeva nebbiosa l'aria. In quelle notti, la bufera produceva un rumore tremendo, incredibile, e non potevamo conversare con la voce, a meno che non ci mettessimo a urlare, accostando le nostre teste fino a toccarci. In altre notti c'era silenzio, un grande, grandissimo silenzio, quel silenzio che si immagina debba essere esistito prima che le stelle cominciassero a formarsi, o quel silenzio che si immagina debba esistere quando tutto sarà perito, quando l'universo si sarà consumato, e non ci sarà altro che il freddo e il silenzio e il vuoto della morte.

Un'ora dopo il nostro pasto della sera, Estraven abbassava la stufa, se questo era fattibile, e spegneva l'emissione della luce. Facendo questo, mormorava una breve e affascinante invocazione, quasi una preghiera, le sole parole rituali che io avessi mai appreso dell'Handdara: «Sia dunque lode alle tenebre e alla Creazione incompiuta, — diceva, e allora cadevano le tenebre. Dormivamo. Al mattino, bisognava ricominciare tutto da capo.

Lo facemmo per cinquanta giorni.

Estraven teneva aggiornato il suo diario, benché durante le settimane trascorse sul Ghiaccio egli scrivesse raramente più di un'annotazione sul tempo e sulla distanza che avevamo percorso quel giorno. Tra queste annotazioni, di quando in quando si fa menzione dei suoi pensieri, o di parte delle nostre conversazioni, ma non c'è una parola che riguardi la conversazione più profonda, tra di noi, che ha occupato il nostro riposo, tra la cena e il sonno, in molte notti del primo mese passato sul Ghiaccio, mentre avevamo ancora energia sufficiente per parlare, e in certi giorni che abbiamo trascorso prigionieri delle bufere, nella tenda. Gli avevo detto che non era proibito, ma non previsto, l'uso del linguaggio paraverbale su un pianeta non-Alleato, e gli avevo chiesto di celare quanto gli avevo insegnato al suo popolo, almeno fino a quando io non avessi potuto discutere ciò che avevo fatto con i miei colleghi dell'astronave. Lui aveva acconsentito, e ha mantenuto la parola. Non ha mai detto, o scritto, nulla che riguardasse quelle nostre silenziose conversazioni.

Il linguaggio mentale era la sola cosa che io avessi da offrire a Estraven, di tutta la mia civiltà, di tutta la mia realtà aliena nella quale lui era così profondamente interessato. Potevo parlare e descrivere interminabilmente; ma era questo tutto ciò che avevo da offrirgli. In realtà, forse si tratta dell'unica cosa importante che noi abbiamo da offrire a Inverno. Ma non posso dire che la gratitudine fosse il motivo che mi spingeva a infrangere la Legge dell'Embargo Culturale. Non gli stavo saldando un debito. Certi debiti non si pagano mai. Estraven e io, semplicemente, eravamo arrivati a un punto nel quale dividevamo tutto quel che avevamo, e che fosse meritevole di essere diviso.

Immagino che si scoprirà che un rapporto sessuale sia possibile tra getheniani bisessuati e gli esseri umani di tipo hainiano, con un solo sesso, benché questi rapporti debbano essere inevitabilmente sterili. Questo rimane da dimostrare; Estraven e io non provammo nulla, all'infuori, forse, di un punto assai più sottile. La cosa più vicina a una crisi, che i nostri desideri sessuali ci portarono, avvenne in una notte nei primi tempi del viaggio, la nostra seconda notte sul Ghiaccio. Avevamo trascorso tutto il giorno a lottare e a muoverci avanti e indietro, nella regione dei grandi crepacci che si stendeva a est delle Colline di Fuoco. Eravamo stanchi quella sera, ma euforici, certi che una rotta sicura e diritta si sarebbe aperta davanti a noi, ben presto. Ma dopo la cena Estraven si era fatto sempre più taciturno, e aveva bruscamente interrotto i miei discorsi. Alla fine gli avevo detto, dopo un diretto rimprovero:

— Harth, se ho detto di nuovo qualcosa di sbagliato, vi prego di dirmi di che si tratta.

Lui aveva taciuto.

— Ho commesso qualche errore di shifgrethor. Mi dispiace; non posso imparare. Non ho mai capito neppure, in realtà, il significato della parola.

— Shifgrethor? Deriva da un antico sinonimo di ombra.

Eravamo rimasti entrambi in silenzio per qualche tempo, e poi lui mi aveva guardato direttamente, con uno sguardo sicuro, e gentile. Il suo viso, nella luce rossigna, era dolce, vulnerabile, e remoto, come il viso di una donna che vi guardi dal profondo dei suoi pensieri, senza parlare.

E allora avevo capito di nuovo, e definitivamente, quello che avevo avuto sempre paura di capire, di vedere, e avevo finto di non vedere in lui: che lui era una donna, almeno quanto era un uomo. Ogni bisogno di spiegare le sorgenti di quella paura era scomparso con la paura; e io ero rimasto, finalmente, con un'accettazione di lui come era. Fino ad allora lo avevo rifiutato, lo avevo respinto, gli avevo rifiutato la sua stessa realtà. Aveva avuto ragione, completamente ragione, nel dire che lui, l'unica persona su Gethen che mi avesse creduto, che avesse avuto una totale fiducia in me, fosse anche l'unica persona su Gethen alla quale io non avevo creduto, non avevo dato la mia fiducia. Perché lui era il solo che mi aveva interamente accettato come un essere umano: che mi aveva apprezzato personalmente, e mi aveva offerto una completa lealtà personale: e che di conseguenza aveva chiesto a me un uguale grado di riconoscimento, di accettazione. E io non ero stato disposto a dargli questo. Avevo avuto paura. Non avevo voluto dare la mia fiducia, la mia amicizia a un uomo che era una donna, a una donna che era un uomo.

Mi aveva spiegato, semplicemente e rigidamente, che lui era in kemmer, e che aveva cercato di evitarmi, entro i limiti nei quali uno di noi poteva evitare l'altro.

— Non devo toccarvi — mi aveva detto, con enorme fatica; dicendo questo, aveva distolto lo sguardo.