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CAPITOLO DECIMO

Conversazioni a Mishnory

Il mattino dopo, mentre io finivo una colazione tardiva che mi era stata servita nell'appartamento che occupavo nella casa di Shusgis, il telefono interno emise un cortese brontolio. Quando io accettai la comunicazione, colui che mi aveva chiamato parlò in lingua karhidi:

— Sono Therem Harth. Posso salire da voi?

— Vi prego, fatelo.

Ero felice che quel confronto avvenisse, e potesse risolversi, senza por tempo di mezzo. Era evidente che tra me ed Estraven non poteva esistere alcuna relazione tollerabile. Benché la sua disgrazia e l'esilio fossero, almeno nominalmente, sul mio conto, non potevo certo assumermi alcuna responsabilità per l'una o per l'altro, né provare alcun senso di colpa razionale; lui non mi aveva chiarito — e neppure reso espliciti — i suoi atti e i suoi motivi, a Erhenrang, e non potevo fidarmi di quell'uomo. Mi ero augurato che egli non fosse immischiato con quegli Orgota che, in senso quasi letterale, mi avevano adottato. La sua presenza era una complicazione e un motivo di imbarazzo.

Egli fu introdotto nella mia stanza da uno dei molti dipendenti della casa. Lo feci sedere su una delle grandi poltrone imbottite, e gli offrii birra da colazione. Egli rifiutò. Il suo atteggiamento non era controllato… egli aveva lasciato alle sue spalle la ritrosia e la timidezza già da molto tempo, se mai ne aveva avute… ma circospetto: distaccato, riservato, apparentemente ambiguo.

— La prima vera nevicata — disse, e vedendo lo sguardo che io lanciavo verso la finestra dai pesanti tendaggi, — non avete ancora guardato fuori?

Lo feci, e vidi la neve scendere fitta e grande, portata da un vento leggero giù nelle strade, sopra i tetti già imbiancati; durante la notte ne erano caduti sette od otto centimetri. Era l'Odarhad Gor, il diciassettesimo giorno del primo mese di autunno.

— È precoce — dissi, preso dall'incantesimo della neve per un momento.

— Per quest'anno prevedono un inverno duro.

Lasciai aperte le tende. La luce uniforme, livida che veniva dall'esterno cadde sul suo viso scuro. Pareva invecchiato. Aveva conosciuto dei tempi duri e difficili, da quando l'avevo visto per l'ultima volta nella Dimora Rossa dell'Angolo, nel Palazzo di Erhenrang, accanto al suo focolare.

— Ho qui ciò che mi è stato chiesto di portarvi — dissi, e gli diedi il pacchetto di denaro avvolto in una pelle impermeabile, che avevo posato sul tavolo, già pronto, subito dopo la sua chiamata. Egli lo prese, e mi ringraziò con aria grave. Io non mi ero seduto. Dopo un momento, stringendo sempre il pacchetto, egli si alzò.

La mia coscienza prudeva un poco, ma non volli grattarla. Volevo scoraggiarlo, fargli perdere ogni desiderio di venire da me. Che questo mi costringesse a umiliarlo, ebbene, era uno sfortunato evento.

Mi guardò diritto negli occhi. Era più basso di me, naturalmente, aveva le gambe più corte e il corpo solido, non era alto neppure come tante donne della mia razza. Eppure quando mi fissò negli occhi, non parve fissarmi dal basso. Io non sostenni il suo sguardo. Esaminai la radio sul tavolo, con una esibizione d'interesse astratto.

— Non si può credere a tutto quello che si ascolta da quella radio, vedete — disse, in tono cortese. — Eppure mi sembra che qui, a Mishnory, voi avreste forse bisogno di informazioni, e di consiglio.

— A quanto sembra, ci sono molte persone ben disposte a darmi entrambe le cose.

— E c'è sicurezza nel numero, eh? Dieci sono assai più degni di fiducia di uno. Scusatemi, non dovrei usare il karhidi, dimenticavo. — Proseguì in Orgota. — Gli uomini banditi non dovrebbero mai parlare nella loro lingua natale; il suo suono è amaro, se esce dalle loro labbra. E questo linguaggio si conviene meglio a un traditore, penso; esce dai denti come zucchero filato. Signor Ai, io ho il diritto di ringraziarvi. Avete svolto un servigio sia per me, che per il mio vecchio amico e kemmeri Ashe Foreth, e nel suo nome e nel mio io reclamo il mio diritto. I miei ringraziamenti prendono la forma di un consiglio. — Fece una pausa; io non dissi nulla. Non gli avevo mai udito usare una forma così elaborata, arida di cortesia, e non avevo idea di che cosa significasse. Lui proseguì, — Voi siete, a Mishnory, quel che non eravate a Erhenrang. Là dicevano che lo eravate; qui diranno di no. Voi siete lo strumento di una fazione. Vi consiglio di essere prudente, nel come lasciarvi usare da costoro; vi consiglio di scoprire quale sia la fazione nemica, e da chi sia composta, e vi consiglio anche di non lasciarvi mai usare da loro, perché non vi userebbero bene.

Si interruppe. Stavo per domandargli di essere più specifico, ma egli disse — Addio, signor Ai — si voltò, e se ne andò. Rimasi stordito, come paralizzato. Quell'uomo era come una scossa elettrica… nulla di solido cui aggrapparsi, e voi non sapete mai cosa vi abbia colpito.

Certamente aveva rovinato l'umore con il quale avevo consumato la colazione, un sentimento pacifico di soddisfazione nel quale mi ero più volte congratulato con me stesso. Camminai verso la stretta finestra, e guardai fuori. La neve si era fatta più rada, ora. Era bellissima, scendeva mollemente in bianchi puntini e in grappoli sottili di gelidi cristalli, come una caduta di petali di ciliegi negli orti della mia casa, quando un vento di primavera scende dolcemente dai verdi pendii di Borland, dove io ero nato; sulla Terra, la calda Terra, dove gli alberi portano fiori a primavera. D'un tratto mi sentii completamente abbattuto, depresso, e pieno di nostalgia. Due anni avevo trascorso su quel maledetto pianeta, e il terzo inverno era cominciato prima che l'autunno fosse iniziato… mesi e mesi di freddo spietato, di ghiaccioli, di ghiaccio, di vento, pioggia, neve, freddo, freddo dentro, freddo fuori, freddo nelle ossa e nel midollo delle ossa. E per tutto quel tempo da solo, alieno e isolato, senza un'anima della quale potermi fidare. Povero Genly, dobbiamo piangere? Vidi Estraven uscire dalla casa, sulla strada, sotto di me, un'ombra scura e appiattita nel bianco grigiore uniforme, confuso, indistinto della neve d'autunno. Si guardò intorno, aggiustandosi la cintura larga del suo Hieb… non indossava un soprabito… E poi s'incamminò lungo la strada, camminando con una grazia decisa, inconfondibile, una rapidità, una vivacità d'essere che in quel momento lo fece sembrare l'unica cosa viva in tutta Mishnory.

Voltai le spalle alla finestra, e guardai di nuovo la stanza calda. Le sue comodità erano soffocanti e banali, l'apparecchio di riscaldamento, le poltrone imbottite, il letto coperto di pelli e coperte, i tappeti, i drappi, le tende, tutto quanto.

Indossai il mio soprabito da inverno e uscii per fare una passeggiata, sentendomi di umore sgradevole in un mondo sgradevole.

Quel giorno avrei dovuto pranzare in compagnia dei Commensali Obsle e Yegey, e di altri che avevo conosciuto la notte precedente, mentre avrei dovuto essere presentato ad altri ancora che non avevo conosciuto. Il pranzo viene servito in genere da un buffet, e viene consumato in piedi, forse affinché uno non abbia l'impressione di avere trascorso tutta la giornata seduto a tavola. Per questa occasione formale, però, intorno al tavolo erano stati predisposti dei sedili, e il buffet era colossale, diciotto o venti piatti, tra caldi e freddi, quasi tutti variazioni delle uova e del pane onnipresenti nella dieta getheniana. Prima che il tabù sulla conversazione venisse applicato, al momento di caricare il piatto di uova fritte, davanti al banco, Obsle mi fece notare — Quello che si chiama Mersen è una spia di Erhenrang, e Gaum, laggiù, è un agente aperto del Sarf, sapete. — Parlò in tono discorsivo, ridendo come se io gli avessi dato una risposta divertente, e si spostò, passando al pesce in salamoia.

Io non avevo idea di che cosa fosse il Sarf.