«Per esempio la farfalla punteggiata delle betulle, o Biston betularia. Conosce quella storia?»
Anna stava citando uno dei capisaldi di quella teoria. La farfalla punteggiata viveva sulle betulle e aveva le ali bianche screziate, per mimetizzarsi con la corteccia di quegli alberi ed evitare di essere mangiata dagli uccelli. Ma, quando, nella regione di Manchester, la fuliggine di una centrale a carbone cominciò a fare annerire gli alberi, le farfalle si ritrovarono vulnerabili, facili prede per gli uccelli. In poche generazioni, però, il colore predominante della popolazione di Biston betularia divenne il nero, per mimetizzarsi sui tronchi coperti di fuliggine.
«Se le mutazioni fossero casuali», argomentò Anna, «sembra una fortuna straordinaria che il nero sia comparso proprio in quel momento. Se era un evento puramente casuale, dov’erano allora le farfalle rosse, quelle verdi, quelle viola? O quelle a due teste?»
Lisa dovette trattenersi dallo strabuzzare gli occhi. «Potrei rispondere che anche le farfalle degli altri colori sono state mangiate e che quelle a due teste si sono estinte. Ma lei fraintende l’esempio: la variazione del colore di quelle farfalle non è stato l’effetto di una mutazione. Quella specie aveva già un gene nero. In ogni generazione nascevano alcune farfalle nere, ma venivano mangiate quasi tutte, quindi la popolazione si manteneva prevalentemente bianca. Quando però gli alberi si sono anneriti, le poche farfalle nere sono risultate avvantaggiate e sono diventate prevalenti nella popolazione della specie. Questo era il senso dell’esempio: l’ambiente può influenzare una popolazione. Ma non si è trattato di un caso di mutazione. Il gene nero era già presente.»
Anna stava sorridendo.
Lisa si rese conto che la donna aveva messo alla prova le sue conoscenze. Si drizzò sulla sedia, irritata e, contemporaneamente, ancora più affascinata.
«Molto bene», disse Anna. «Allora mi permetta di citarle un evento più recente, verificatosi in un ambiente controllato, in laboratorio. Un ricercatore ha prodotto una varietà di batteri E. coli che non erano in grado di digerire il lattosio. Poi ne ha sparsa una florida popolazione su una piastra di coltura, in cui l’unica fonte di cibo era il lattosio. Che cosa sarebbe dovuto accadere, secondo la scienza?»
Lisa scrollò le spalle. «Incapaci di digerire il lattosio, i batteri sarebbero morti di fame.»
«Ed è esattamente ciò che è successo al novantotto percento di quei batteri, ma il due percento ha continuato a prosperare. Quei batteri avevano spontaneamente mutato un gene, per digerire il lattosio. In una sola generazione. Io lo trovo sconcertante. Va contro ogni ipotesi di casualità. Con tutti i geni presenti nel DNA di un E. coli e la rarità della mutazione, perché il due percento di quella popolazione ha mutato l’unico gene necessario per sopravvivere? È un evento inspiegabile alla luce della casualità.»
Lisa doveva ammettere che era strano. «Forse c’è stata una contaminazione in laboratorio.»
«L’esperimento è stato ripetuto, con risultati analoghi.»
Lisa non era ancora convinta.
«Vedo il dubbio nei suoi occhi. Perciò andiamo a cercare altrove un esempio di come sia impossibile che le mutazioni genetiche siano casuali.»
«E cioè dove?»
«Ritorniamo all’inizio della vita, al brodo primordiale, dove il motore dell’evoluzione si è acceso per la prima volta.»
Lisa ricordò che Anna aveva già accennato in precedenza che la storia della Campana risaliva all’origine della vita. Era lì che voleva andare a parare? Lisa aprì bene le orecchie, pronta a sentire che piega avrebbe preso la discussione.
«Riportiamo indietro le lancette dell’orologio», disse Anna, «a un momento precedente alla comparsa della prima cellula. Ricordi il principio di Darwin: ciò che esiste ha necessariamente avuto origine a partire da una forma più semplice, meno complessa. Perciò che cosa c’era prima degli organismi unicellulari? Fino a che punto possiamo ridurre la vita e chiamarla ancora vita? Il DNA è vivo? E un cromosoma? E una proteina o un enzima? Qual è la linea di demarcazione tra la chimica e la vita?»
«Okay, questa è davvero una domanda intrigante», ammise Lisa.
«Allora gliene farò un’altra. In che modo la vita ha compiuto il salto da un brodo chimico primordiale alla prima cellula?»
Lisa conosceva la risposta. «L’atmosfera della Terra ai primordi era piena di idrogeno, metano e acqua. Aggiungendo qualche scarica di energia, per esempio un fulmine, quei gas possono formare semplici composti organici. Questi ultimi, cuocendo nel proverbiale brodo primordiale, hanno formato una molecola in grado di replicarsi.»
«Il che è stato provato in laboratorio», confermò Anna. «Una provetta piena di gas ha prodotto un impasto di aminoacidi, i mattoni delle proteine.»
«E così è cominciata la vita.»
«Ah, lei è impaziente, corre troppo», la punzecchiò Anna. «Per il momento abbiamo soltanto aminoacidi, mattoni. Come passiamo da qualche aminoacido a quella prima proteina in grado di replicarsi completamente?»
«Basta mescolare una quantità sufficiente di aminoacidi e alla fine si concateneranno nella combinazione giusta.»
«Per caso?»
Lisa annuì.
«È così che arriviamo alla radice del problema, dottoressa Cummings. Posso convenire con lei che l’evoluzione di Darwin ha svolto un ruolo significativo dopo la formazione della prima proteina in grado di autoreplicarsi. Ma sa quanti aminoacidi devono concatenarsi per formare quella prima proteina capace di replicarsi?»
«No.»
«Un minimo di trentadue. Tanti ne ha la più piccola proteina in grado di replicarsi. Le probabilità che questa proteina si formi per caso sono astronomicamente esigue: dieci alla quarantunesima.»
Lisa scrollò le spalle di fronte a quella cifra. Nonostante la sua avversione per quella donna, cominciava a nutrire un riluttante rispetto nei suoi confronti.
«Mettiamo queste probabilità in prospettiva», proseguì Anna. «Se prendessimo tutte le proteine presenti in tutte le foreste pluviali del mondo e le dissolvessimo tutte in un brodo di aminoacidi, sarebbe comunque ampiamente improbabile che si formasse una catena di trentadue aminoacidi. In effetti, ci vorrebbe una quantità cinquemila volte superiore per formare una di quelle catene. Cinquemila foreste pluviali. Quindi, come passiamo da una poltiglia di aminoacidi a quel primo moltiplicatore, il primo pezzo di vita?»
Lisa scosse la testa.
Anna incrociò le braccia, soddisfatta. «C’è un vuoto evoluzionistico che anche Darwin fa fatica a colmare.»
«Tuttavia», ribatté Lisa, rifiutandosi di cedere, «colmare quel vuoto mettendo in mezzo Dio non è scienza. Il fatto che non abbiamo ancora una risposta per colmare quel vuoto non significa che ci sia una causa soprannaturale.»
«Non sto dicendo che è soprannaturale. E poi, chi dice che io non ho una risposta per colmare quel vuoto?»
Lisa la guardò a bocca aperta. «Quale risposta?»
«Una cosa che abbiamo scoperto decenni fa, grazie ai nostri studi sulla Campana. Una cosa che altri ricercatori stanno cominciando a esplorare seriamente soltanto adesso.»
«E che cos’è?» Lisa si accorse di avere cambiato posizione sulla sedia, rinunciando a qualsiasi tentativo di nascondere il suo interesse per tutto ciò che aveva a che fare con la Campana.
«La chiamiamo evoluzione quantica.»
«Che cosa c’entrano i quanti con l’evoluzione?»
«Non solo questo nuovo campo dell’evoluzione quantica rappresenta il sostegno più forte alla tesi del disegno intelligente, ma risponde anche alla domanda fondamentale: chi è l’artefice.»
«Sta scherzando… E chi sarebbe? Dio?»
«Nein.» Anna la guardò dritto negli occhi. «Noi.»
Prima che la donna potesse proseguire nelle sue spiegazioni, da una vecchia radio appesa alla parete proruppe una raffica di crepitìi elettrostatici, dai quali emerse una voce familiare.