Ma era pur sempre la casa. Scuotivento contemplava su e giù la strada vuota e si sentiva quasi felice.

In fondo alla sua mente l’Incantesimo faceva il diavolo a quattro, ma lui l’ignorava. Forse era vero che la magia s’indeboliva mano a mano che la stella si faceva più vicina. O forse era tanto tempo che lui aveva l’Incantesimo nella testa che si era costruito una sorta d’immunità psichica. Ad ogni modo, scopriva di essere capace di resistergli.

— Ci troviamo ai docks — dichiarò. — Sentite l’odore dell’aria di mare?

— Oh — disse Bethan, appoggiandosi a un muro — sì.

— È ozono, ecco cos’è — continuò il mago. — Questa è un’aria che ha del carattere, eccome. — E inalò profondamente.

Duefiori si rivolse al negoziante: — Bene, spero che troverai il tuo stregone. Scusami se non ti abbiamo comprato nulla ma, vedi, tutto il mio denaro si trova nel mio Bagaglio.

L’omino gli mise qualcosa in mano.

— Un regalino. Ne avrai bisogno — gli disse.

Corse a ripararsi nel suo negozio, il campanello tintinnò, il cartello con la scritta "Tornate Domani Per I Cucchiaini-Esca per Sanguisughe" sbatté contro la porta, e il negozio scomparve nel muro di mattoni come non fosse mai esistito. Duefiori allungò con precauzione una mano a toccarlo, incredulo.

— Che c’è nella busta? — domandò Scuotivento.

Era una busta di spessa carta marrone con i manici di cordicella.

— Se gli spuntano le gambe, non voglio saperlo — disse Bethan.

Duefiori guardò dentro la busta e ne tirò fuori il contenuto.

— Questo è tutto? Una casetta con su le conchiglie? — fece Scuotivento.

— È molto utile — ribatté Duefiori sulla difensiva. — Ci si possono tenere le sigarette.

— Proprio quelle di cui hai bisogno, no?

— Io farei follie per una boccetta di olio solare veramente efficace — osservò la ragazza.

— Andiamo. — Scuotivento si avviò per la strada e gli altri lo seguirono.

A Duefiori venne in mente che era il caso di dire qualche parola di conforto, un discorsino pieno di tatto per distrarre Bethan, come avrebbe detto lui, e in linea generale per rallegrarla un po’.

— Non ti preoccupare — le disse. — C’è la possibilità che Cohen sia ancora vivo.

— Oh, immagino che infatti sia vivo — rispose lei, senza fermarsi e pestando con tanta forza i ciottoli, come se avesse un fatto personale contro ognuno di loro. — Non si campa fino a ottantasette anni nel suo mestiere, se uno se ne va in giro a morire tutto il tempo. Ma il fatto è che lui non è qui.

— E nemmeno il mio Bagaglio. Naturalmente, non è la stessa cosa.

— Credi che la stella colpirà il Disco?

— No — rispose Duefiori, sempre fiducioso.

— Perché no?

— Perché Scuotivento non la pensa così. Lei lo guardò stupefatta.

— Vedi — continuò il turista. — Sai che cosa si fa con un’alga? Bethan, allevata sulle Pianure del Vortice, conosceva il mare soltanto dai racconti, e aveva deciso che non le piaceva.

— Si mangia? — azzardò.

— No, si appende all’ingiù sulla porta, e ti dice se pioverà. Un’altra cosa che Bethan aveva imparato era come fosse inutile

cercare di capire ciò che diceva Duefiori. Non restava che proseguire la conversazione e sperare di trovarci un appiglio qualsiasi.

— Capisco — disse perciò.

— Vedi, Scuotivento è come quella.

— Come un’alga?

— Sì. Se c’è qualcosa di cui essere spaventati, lui lo sarebbe. Ma non lo è. La stella è pressappoco l’unica cosa della quale io non l’ho visto avere paura. Se non si preoccupa lui allora, credimi, non c’è nulla di cui preoccuparsi.

— Non pioverà? — chiese ia ragazza.

— Be’, no. Parlando metaforicamente.

— Oh. — Bethan decise di non chiedere cosa significasse "metaforicamente", nel caso avesse a che fare con le alghe.

Scuotivento si voltò.

— Venite — disse. — Ormai non è lontano.

— Per dove? — domandò l’amico.

— L’Università Invisibile, naturalmente.

— È prudente?

— Probabilmente no, ma io ci vado lo stesso… — Scuotivento s’interruppe, il viso una maschera di dolore. Si turò le orecchie con le mani e gemette.

— L’Incantesimo ti causa delle noie?

— Yargh.

— Prova a cantarellare.

Il mago fece una smorfia. — Mi libererò di questa cosa — disse con voce rauca. — Tornerà nel libro al quale appartiene. Rivoglio la mia testa!

— Ma allora… — cominciò Duefiori e si fermò. Tutti loro l’udivano… Un canto lontano e il rumore di molti passi.

— Credete che siano quelli della stella? — chiese Bethan.

Era proprio così. A un centinaio di metri di distanza il manipolo di punta svoltava l’angolo, marciando dietro una lacera bandiera bianca con su dipinta una stella a otto punte.

— Non sono solo quelli della stella — osservò Duefiori. — È gente di ogni tipo…

La folla li trascinò via al suo passaggio. Un attimo prima i tre amici si trovavano nella strada deserta, e subito dopo furono travolti da una marea di gente che li spingeva in avanti attraverso la città.

La luce delle torce vacillava negli umidi tunnel sepolti sotto l’Università, percorsi in fila indiana dai capi degli otto Ordini della stregoneria.

— Almeno quaggiù è fresco — disse uno.

— Non dovremmo trovarci quaggiù.

Trymon, che guidava il gruppo, non disse nulla. Ma era tutto immerso nei suoi pensieri. Pensava alla boccetta d’olio nella sua cintura e alle otto chiavi che portavano i maghi. Otto chiavi corrispondenti agli otto chiavistelli che incatenavano l’Octavo al suo leggio. Pensava che i vecchi maghi, sentendo la magia abbandonarli, si preoccupano dei propri problemi e stanno forse meno in guardia di quanto dovrebbero. Pensava che tra pochi minuti avrebbe avuto sotto le mani l’Octavo, la massima concentrazione di magia del Disco.

Malgrado nel tunnel facesse fresco, cominciò a sudare.

Arrivarono davanti a una porta rivestita di piombo che si apriva nella parete di pietra. Trymon prese una grossa chiave (una buona, onesta chiave di ferro, non come le chiavi contorte e sconcertanti che avrebbero aperto l’Octavo), introdusse nella serratura un goccio d’olio, ce la inserì, la girò. La serratura si aprì con uno stridio di protesta.

— Siamo tutti unanimi nella nostra decisione? — domandò Trymon. Gli rispose una serie di grugniti vagamente affermativi.

Lui spinse la porta.

Furono investiti da una ventata di aria calda e greve, un po’ oleosa. Si udiva un pigolio acuto e sgradevole. Scintille di ottarino sprizzavano da ogni naso, da ogni barba, dalle unghie.

I maghi, la testa china contro la tempesta di magia erratica proveniente dalla stanza, avanzavano a fatica. Fluttuavano intorno a loro con suoni stridenti forme confuse: erano gli spaventevoli abitanti delle Dimensioni Sotterranee in cerca (con cose che fungevano da dita solo perché come tali terminavano le loro braccia) di un possibile ingresso nel cerchio di luce che passava per l’universo della ragione e dell’ordine.

Perfino in un momento simile, poco propizio per tutte le cose magiche, perfino in una stanza concepita per smorzare ogni vibrazione magica, l’Octavo ancora crepitava del suo potere.

In realtà le torce sarebbero state superflue. L’Octavo riempiva il locale di una luce opaca, triste. Strettamente parlando, non era una luce, ma il suo opposto. L’oscurità non è l’opposto della luce, è semplicemente la sua assenza. E quella che si irradiava dal libro era la luce che emana dal limite estremo dell’oscurità. La luce fantastica.

Di un colore violaceo alquanto deludente.

Come già accennato, l’Octavo era incatenato a un leggio scolpito in una forma a metà strada tra un uccello e un rettile. Una forma orribilmente viva. Due occhi scintillanti fissavano i maghi pieni di odio.

— L’ho visto muoversi — disse uno di loro.

— Finché non tocchiamo il libro siamo al sicuro — dichiarò Trymon. Estrasse dalla cintura un rotolo di pergamena e lo svolse.