Una sagoma scura avanzò sulla neve gelata verso il mago. Era il Bagaglio. A Scuotivento, che di solito l’odiava e non si fidava di lui, parve a un tratto la cosa più piacevolmente normale che avesse mai visto.

— Dunque, vedo che ce l’hai fatta — gli disse. Il Bagaglio scosse il coperchio.

— Okay, ma tu che cosa hai visto? — gli domandò Scuotivento. — Ti sei guardato dietro?

Il Bagaglio non rispose. Per un momento rimasero in silenzio, come due guerrieri che, fuggiti dalla scena del massacro, fanno una pausa per riprendere fiato e ritrovare il proprio equilibrio.

Quindi il mago gli disse: — Vieni, là dentro c’è un fuoco — e tese una mano per battergli amichevolmente sul coperchio. Poco mancò, invece, che questo gli azzannasse le dita. La vita era tornata alla normalità.

Il giorno seguente si levò brillante, limpido e freddo. Il cielo era una volta azzurra sulla bianca distesa del mondo. L’effetto generale era fresco e pulito come la pubblicità di una pasta dentifricia, se non fosse stato per il punto rosso all’orizzonte.

— Adescio lo puoi vedere bene alla lusce del giorno — disse Cohen. — Che cosc’è?

Fissò intento Scuotivento, che arrossì.

— Perché tutti mi guardano? — protestò. — Non so che cos’è, forse è una cometa o roba del genere.

— Verremo bruciati tutti? — chiese Bethan.

— Come faccio a saperlo? Non sono mai stato colpito da una cometa prima d’ora.

Cavalcavano in fila indiana per il campo brillante di neve. Il popolo dei Cavalli, che evidentemente teneva Cohen in grande stima, gli aveva fornito le cavalcature e gli aveva dato le indicazioni per raggiungere il fiume Smarl, a centosessanta chilometri verso il Bordo, dove, secondo Cohen, Scuotivento e Duefiori avrebbero potuto trovare un’imbarcazione che li portasse al Mare Circolare. Aveva annunciato che li avrebbe accompagnati, per via dei suoi geloni.

Subito Bethan aveva dichiarato che sarebbe andata anche lei, nel caso Cohen avesse bisogno di un massaggio.

Scuotivento aveva la vaga impressione che qualcosa bollisse in pentola. Tanto per cominciare, Cohen aveva fatto uno sforzo per pettinarsi la barba.

— Credo che lei abbia molta simpatia per te — gli disse. Cohen sospirò.

— Se fosci venti anni più giovane — esclamò in tono nostalgico.

— Sì?

— Avrei sesciantascette anni.

— E questo che c’entra?

— Be’… come dire? Quando ero un giovanotto, che mi fascevo un nome nel mondo, be’, allora le mie donne mi piascevano rosce di capelli e ardite.

— Ah!

— E dopo sono diventato un po’ più vecchio, e di preferenza scercavo una donna dai capelli biondi e negli occhi il luscicchio del mondo.

— Oh? Sì?

— Ma poi, ancora un po’ più vecchio, ho capito i vantaggi delle donne brune e appascionate di natura.

Tacque. Il mago aspettava.

— E? — lo incalzò. — E poi? Cosa cerchi adesso in una donna? Cohen volse verso di lui i suoi azzurri occhi acquosi.

— La pazienza.

— Non riesco a crederci! — disse una voce dietro di loro. — Io cavalcare con Cohen il Barbaro?

Era Duefiori. Fin dal primo mattino, dopo avere scoperto di respirare la stessa aria del più grande eroe di tutti i tempi, era come una scimmia che ha la chiave di una piantagione di banane.

— Sta forse fascendo del sarcasmo? — domandò Cohen al mago.

— No. Fa sempre così.

Cohen si girò sulla sella. L’ometto gli fece un gran sorriso e agitò la mano, tutto fiero. Cohen si rigirò con un brontolio.

— Ha occhi per vedere, eh?

— Già, ma non gli funzionano come a tutti gli altri, te lo garantisco. Voglio dire… be’, ricordi la tenda del popolo dei Cavalli, dove abbiamo passato la notte?

— Scì.

— Non diresti che era piuttosto scura e unta e puzzava come un cavallo molto malato?

— Una descrizione molto accurata, direi.

— Lui non sarebbe d’accordo. Direbbe che era una splendida tenda barbara, tappezzata con le pelli dei grandi animali cacciati dai guerrieri con gli occhi a mandorla fin dai primordi della civiltà; e che odorava di aromi curiosi e rari derubati alle carovane che attraversano i deserti… be’ e via così. Parlo sul serio — aggiunse.

— È matto?

— In un certo senso. Ma un matto con un sacco di quattrini.

— Ah, allora non può essere matto. Io ho girato molto. Sce un uomo ha un sciacco di quattrini, è sciolo un escentrico.

Cohen si girò di nuovo sulla sella. Duefiori stava raccontando a Bethan come l’eroe avesse sconfitto da solo i guerrieri del serpente dello stregone di S’belinde e rubato il diamante sacro dalla gigantesca statua di Offler, il Dio Coccodrillo.

Sulla faccia grinzosa di Cohen si disegnò un sorriso bizzarro.

— Se vuoi, potrei dirgli di piantarla — gli disse Scuotivento.

— Lo farebbe?

— No, non proprio.

— Allora lascialo sciansciare. — L’eroe portò la mano all’elsa della spada, levigata da decenni di uso.

— A ogni modo — disse — i suoi occhi mi piacciono. Sono capasci di vedere per scinquanta anni.

A una decina di metri di distanza, il Bagaglio li seguiva saltellando goffamente nella neve soffice. Nessuno chiedeva mai la sua opinione su qualsiasi argomento.

A sera erano arrivati al limite degli altipiani e scesero attraverso le cupe foreste di pini, appena spruzzate dalla tempesta di neve. Era un paesaggio di enormi massi frastagliati e di valli così strette e profonde che la luce del giorno durava appena una ventina di minuti. Una terra ventosa e selvaggia, del tipo dove uno si aspetterebbe di trovare…

Cohen annusò l’aria. — Troll — affermò.

Scuotivento si guardò intorno nella luce rossastra della sera. A un tratto, rocce che erano apparse perfettamente normali, gli sembrarono prendere vita. Ombre, che lui non avrebbe guardato due volte, ora cominciarono a parergli non più semplicemente tali.

— I troll mi piacciono — annunciò Duefiori.

— Non è vero — lo rimbeccò l’amico. — Non è possibile. Sono grossi e bitorzoluti e mangiano le persone.

— No, non lo fanno — dichiarò Cohen, che scivolò giù da cavallo con una certa fatica e prese a massaggiarsi le ginocchia. — È un equivoco ben noto. I troll non hanno mai mangiato nesciuno.

— No?

— No. sputano scempre fuori i pezzetti. Non digeriscono le perscione, capisci? Un troll normale non chiede altro alla vita che un bel tocco di granito, magari con una fetta di calcare per finire. Ho sentito qualcuno dire che è cosci perché sciono un scilicash… un scilisceo… — Cohen fece una pausa per asciugarsi la barba — perché sciono fatti di rosce.

Scuotivento annuì. Naturalmente i troll non erano sconosciuti a Ankh-Morpork, dove trovavano spesso da impiegarsi come guardie del corpo. Mantenerli era un po’ dispendioso, finché loro non imparavano che esistevano le porte e smettevano di uscire di casa passando a casaccio attraverso la parete più vicina.

Mentre raccoglievano la legna per accendere il fuoco, Cohen continuò: — I denti dei troll, ecco cosc’è.

— Perché? — domandò Bcthan.

— Diamanti. Devono escerlo, capissci. La sciola coscia che può farscela con le rosce eppure deve crescergli una nuova scerie ogni anno.

— Parlando di denti… — cominciò Duefiori.

— Scì?

— Non posso fare a meno di notare…

— Scì?

— Oh, nulla.

— Scì? Oh! Ascendiamo queshto fuoco prima che fascia buio. E poi — Cohen fece la faccia afflitta — sciuppongo sciarà meglio fare un po’ di minestra.

— In questo Scuotivento è molto bravo — disse Duefiori con entusiasmo. — Sa tutto delle erbe, radici e via di seguito.

Cohen diede al mago un’occhiata eloquente per fargli capire che non ci credeva.

— Scenti — disse — il popolo dei Cavalli sci ha dato della carne di cavallo scecca. Se riesci a trovare delle scipolle scelvatiche e altra roba, potrebbe avere un sciapore migliore.