— Immagino ti chiederai perché ti abbiamo riportato qui — gli disse all’orecchio una voce.

— No.

— No?

— Che ha detto? — chiese un’altra voce disincarnata.

— Ha detto di no.

— Ha veramente detto no?

— Sì.

— Oh!

— Perché?

— Cose del genere mi accadono tutto il tempo — affermò Scuotivento. — Un minuto prima cado fuori del mondo, poi mi trovo dentro un libro, quindi su un masso volante, poi osservo la Morte giocare a Chiusa o Diga o che altro fosse. Perché dunque dovrei meravigliarmi?

— Be’, noi supponiamo che ti chiederai perché non vogliamo che nessuno ci pronunci — spiegò la prima voce, conscia di stare perdendo l’iniziativa.

Il mago esitò. Quel pensiero gli era passato per la mente, solo in gran fretta e guardandosi nervosamente a destra e a sinistra nel caso lo mettessero k.o.

— Perché qualcuno dovrebbe desiderare di pronunciarvi?

— È la stella. La stella rossa. I maghi ti stanno già cercando; quando ti trovano, vogliono pronunciare tutti gli Otto Incantesimi insieme per cambiare il futuro. Pensano che il Disco sta per scontrarsi con la stella.

Scuotivento ci pensò su. — È così?

— Non esattamente, ma in… e questo cos’è?

Scuotivento abbassò gli occhi. Il Bagaglio sbucò dall’oscurità. Dal suo coperchio spuntava il lungo frammento di una lama di falce.

— È solo il Bagaglio — disse il mago.

— Ma non lo abbiamo chiamato qui!

— Nessuno lo convoca — ribatté Scuotivento. — Si presenta e basta. Non preoccupatevi.

— Oh! Di che stavamo parlando?

— La faccenda di quella stella rossa.

— Giusto. È molto importante che tu…

— Salve? Ehi! C’è qualcuno là?

Era una vocetta acuta proveniente dalla scatola a immagini che pendeva ancora dal collo inerte di Duefiori.

Il demonietto aprì la porticina e guardò Scuotivento.

— Dove sarebbe questo posto, egregio?

— Non ne sono sicuro.

— Siamo sempre morti?

— Forse.

— Be’, speriamo di andare da qualche parte dove non ci occorra troppo colore nero, perché l’ho finito. — La porticina si richiuse.

Scuotivento ebbe la fuggevole visione di Duefiori che faceva circolare le immagini e pronunciava frasi del genere "Questo sono io tormentato da un milione di demoni" e "Questo sono io con quello strano paio che abbiamo incontrato sui pendii gelati dell’Oltretomba". Il mago non sapeva per certo cosa succedeva dopo che uno era morto per davvero, le autorità non erano molto chiare in proposito. Un marinaio dalla pelle scura che veniva dalle terre del Bordo si era detto fiducioso di andare in un paradiso dove c’erano succo di frutta e uri. Scuotivento non sapeva bene che cosa fossero le uri, ma dopo averci riflettuto era giunto alla conclusione che doveva trattarsi di un tubetto di liquerizia per succhiare il succo di frutta. A lui, comunque, il succo di frutta lo faceva sternutire.

— Ora che l’interruzione è finita — dichiarò una voce — forse possiamo proseguire. È della massima importanza che tu non permetta ai maghi di portati via l’Incantesimo. Se tutti gli Otto Incantesimi saranno pronunciati troppo presto, accadranno cose terribili.

— Voglio soltanto essere lasciato in pace — protestò Scuotivento.

— Bene, bene, sapevamo di poterci fidare di te fin dal giorno in cui hai aperto l’Octavo.

Il nostro esitò. — Aspettate un minuto. Volete che io me ne vada in giro a impedire ai maghi d’impadronirsi di tutti quanti gli incantesimi?

— Esatto.

— È per questo che uno di voi mi è entrato nella testa?

— Precisamente.

— Voi avete distrutto completamente la mia vita, lo sapete questo? — ribatté con veemenza Scuotivento. — Come mago avrei potuto farcela, se voi non aveste deciso di usarmi come una specie di libro degli incantesimi portatile. Non sono capace di ricordare nessun altro incantesimo perché sono troppo spaventati di stare nella mia testa insieme a voi!

— Ci rincresce.

— Voglio soltanto tornarmene a casa! Voglio ritornare dove… — gli occhi del mago s’inumidirono — dove uno sente il selciato sotto i piedi e la birra non è troppo cattiva e di sera si può mangiare dell’ottimo pesce fritto forse con contorno di grossi cetrioli. E anche un pasticcio di anguilla e un piatto di vongole. E dove si trova sempre una stalla per dormirci al calduccio. E la mattina uno si sveglia nello stesso posto della sera prima, senza preoccuparsi del tempo che fa. Voglio dire, non m’importa della magia. Sapete, probabilmente non ho la stoffa giusta per fare un mago. Voglio soltanto tornarmene a casa!

— Ma tu devi… — cominciò uno degli Incantesimi.

Troppo tardi. La nostalgia, quel piccolo elastico del subconscio capace di dare la carica al salmone e spingerlo a tremila miglia di distanza attraverso strani mari. O capace di sospingere un milione di lemming a correre gioiosi verso la loro terra ancestrale la quale, a seguito di un lieve scarto della deriva continentale non è più là… La nostalgia invase Scuotivento come un gambero, fluì lungo i fragili fili che tenevano insieme la sua anima torturata al corpo, affondò le pinze e tirò…

Gli Incantesimi si ritrovarono soli dentro l’Octavo.

Soli, in ogni caso, a prescindere dal Bagaglio.

Lo fissarono, non con gli occhi, ma con la consapevolezza antica come lo stesso mondo-Disco.

— E anche tu puoi toglierti dalle scatole — dissero.

— …male.

Scuotivento sapeva che era lui che parlava, riconosceva la voce. Per un momento guardò attraverso i propri occhi, ma non in modo normale. Piuttosto come una spia che sbircia attraverso le fessure ritagliate negli occhi di una fotografia. Un attimo dopo era tornato.

— Stai bene, Scuotivento? — gli chiese Cohen. — Sembrava che non fosci qui.

— Eri piuttosto pallido — aggiunse Bethan. — Come se qualcuno avesse camminato sulla tua tomba.

— Uhm, già, probabilmente ero io. — Alzò una mano e si contò le dita. Pareva che fossero del numero giusto.

— Ehm, mi sono mosso? — domandò.

— Fissavi il fuoco come se vedessi un fantasma — disse Bethan.

Udirono un gemito alle loro spalle. Duefiori si era messo seduto e si teneva la testa nelle mani.

I suoi occhi li misero a fuoco, le sue labbra si mossero senza emettere alcun suono.

— È stato veramente… un sogno strano — disse. — Cos’è questo posto? Perché sono qui?

— Be’ — cominciò Cohen — scerti dicono che il Creatore ha prescio una mansciata di creta e…

— No, io voglio dire qui. Sei tu. Scuotivento?

— Sì — rispose il mago, con il beneficio del dubbio.

— C’era questa… un orologio che… e quelle persone che… — balbettò Duefiori e scosse la testa. — Perché ogni cosa odora di cavallo?

— Sei stato malato — lo informò l’amico. — Allucinazioni.

— Già… suppongo di sì. — Duefiori si guardò il petto. — Ma in questo caso, perché ho…

Scuotivento balzò in piedi.

— Scusatemi, qui dentro manca l’aria, devo andare fuori a respirare un po’. — Sfilò dal collo di Duefiori la cinghia della scatola a immagini e si precipitò verso l’apertura della tenda.

— Non avevo notato quell’oggetto quando lui è entrato — osservò Bethan. Cohen alzò le spalle.

Scuotivento era riuscito ad allontanarsi qualche metro dalla tenda prima che la rotellina della scatola a immagini si mettesse a scattare. Molto adagio venne fuori l’ultima immagine presa dal demonietto.

Scuotivento fu pronto a tirarla via.

Ciò che mostrava sarebbe stato orribile anche alla piena luce del giorno. Ancora peggio, alla gelida luce stellare, tinta di rosso dai fuochi della nuova stella di cattivo augurio.

— No — disse il mago sottovoce. — No, non era così. C’era una casa e quella ragazza e…

Dal suo sportellino, l’omuncolo gli disse: — Tu vedi ciò che vedi e io dipingo ciò che vedo. Ciò che vedo è reale. Sono stato addestrato per questo. Vedo soltanto ciò che c’è realmente.