— A che serve dunque, esattamente? — volle sapere Scuotivento. Qualunque cosa pur di non pensare all’abisso sottostante.

— Si può usare per… per sapere in quale stagione dell’anno siamo.

— Ah! Vuoi dire che, se è coperto di neve, allora deve essere inverno?

— Sì. Voglio dire, no. Voglio dire, supponendo che tu voglia sapere quando sorgerà una stella particolare…

— Perché? — domandò Duefiori, irradiando cortese interessamento.

— Be’, forse vuoi sapere quando piantare il raccolto — disse Belafon sudando un po’ — oppure…

— Se vuoi, ti presterò il mio almanacco — offrì l’ometto.

— Almanacco?

— È un libro che ti dice in che giorno siamo — spiegò stancamente Scuotivento, — Sarebbe proprio adatto al tuo campo.

Belafon s’irrigidì. — Libro? Come che, con la carta?

— Sì.

— A me non suona molto affidabile — disse seccato il druido. — Come può un libro sapere in che giorno siamo? La carta non sa contare.

Si allontanò a passo di marcia verso il bordo del masso, facendolo oscillare in maniera allarmante. Scuotivento deglutì con forza e fece cenno a Duefiori di avvicinarsi.

— Hai mai sentito parlare di shock da cultura? — gli chiese.

— Che cos’è?

— È ciò che accade quando la gente trascorre cinquecento anni cercando di far funzionare come si deve un circolo di pietre e poi si presenta qualcuno con un libretto contenente una pagina per ogni giorno e dei brani dove si dice "Adesso è l’epoca giusta per piantare i fagioloni" e "Alzarsi presto e andare a dormire presto fa l’uomo sano, ricco e morto". E sai qual è la cosa più importante da ricordare dello shock da cultura… — Il mago s’interruppe per riprendere fiato e mosse in silenzio le labbra cercando di ricordarsi come finiva la frase.

— Qual è?

— Non farlo avere a un uomo che vola su un masso di mille tonnellate.

— Se n’è andato?

Trymon si sporse con precauzione dai merli della Torre dell’Arte, la grande costruzione diroccata che sovrastava l’Università Invisibile. Molto più in basso, gli studenti e i docenti di magia lì raggruppati annuirono.

— Siete sicuri?

L’economo, con le mani a imbuto intorno alla bocca, gridò: — Ha abbattuto la porta rivolta verso il Centro e ci è sfuggito un’ora fa, signore.

— Sbagli — lo rimbeccò Trymon. — Lui se n’è andato e noi siamo sfuggiti.

L’economo deglutì. Lui non era un mago, ma un uomo buono e gentile che non meritava di vedere le cose a cui aveva assistito nell’ultima ora.

Naturalmente, era noto che demonietti, luci colorate, fantasie varie semiimmateriali vagassero per il campus. Ma qualcosa nell’attacco implacabile del Bagaglio aveva lasciato annichilito il pover’uomo. Tentare di fermarlo sarebbe stato come tentare di abbrancare un ghiacciaio.

— Lui… lui si è ingoiato il Decano degli Studi Liberali, signore — gridò.

Trymon si rasserenò.

Prese a scendere la lunga scala a chiocciola. Dopo un po’ sorrise. Un sorrisetto appena accennato. La giornata andava senza dubbio migliorando.

C’erano un sacco di cose da organizzare. E se c’era una cosa che a Trymon piaceva davvero fare, era organizzare.

Il masso scendeva in picchiata sull’altopiano, alzando spruzzi di neve dai depositi alluvionali soltanto pochi centimetri più in basso. Belafon andava intorno indaffarato, qui spalmando un po’ di unguento di vischio, là tracciando un carattere runico col gessetto, mentre Scuotivento, esausto e terrorizzato, se ne stava rannicchiato da una parte e Duefiori si preoccupava del suo Bagaglio.

— Laggiù davanti a noi! — gridò il druido al di sopra del rumore dell’aria che fendevano. — Guardate, il grande computer dei cieli!

Scuotivento diede una sbirciatina attraverso le dita. Sulla lontana linea dell’orizzonte si stagliava un’immensa costruzione di lastre grigie e nere, disposte in cerchi concentrici e viali mistici, dall’aspetto desolato e minaccioso contro la neve. Certo non gli uomini avevano spostato quelle montagne nascenti… di sicuro un esercito di giganti era stato trasformato in pietra da…

— Sembra un sacco di rocce messe insieme — osservò Duefiori. Belafon si arrestò a metà gesto. — Cosa?

— È molto carino — si affrettò ad aggiungere il turista. Cercò una parola. — Etnico — decise.

Il druido s’irrigidì. — Carino? Un trionfo di tocchi di silicone, un miracolo della moderna tecnologia delle costruzioni… carino?

— Oh, sì. — Per Duefiori il sarcasmo era soltanto una parola di otto lettere che cominciava per S.

— Che significa etnico? — chiese il druido.

— Significa straordinariamente imponente — disse svelto Scuotivento — e sembra che siamo in pericolo di atterrare, se non fai attenzione…

Belafon si girò, rabbonito solo in parte. Spalancò le braccia in alto e gridò una serie di parole intraducibili, finendo con "carino!" sussurrato in tono offeso.

Il masso rallentò il volo, virò da un lato in un turbine di neve e rimase sospeso in aria sopra il cerchio. Giù in basso, un druido agitava due rami di vischio tracciando disegni complicati e Belafon con grande perizia portò il masso a fermarsi con un lievissimo clic al di là di due giganteschi montanti.

Scuotivento, che tratteneva il fiato, lo mandò fuori in un lungo sospiro, che corse a nascondersi da qualche parte.

Una scala urtò contro il fianco del masso e si affacciò la testa di un druido anziano. Questi guardò curioso i due passeggeri e poi si rivolse a Belafon.

— Era tempo — disse. — Mancano sette settimane alla Notte della Posta del Cinghiale e ci ha tradito di nuovo.

— Salve, Zakriah — lo salutò Belafon. — Che è successo questa volta?

— È assolutamente impazzito. Oggi ha annunciato il levare del sole tre minuti prima. Se parliamo di un imbranato, ragazzo, questo è lui.

Belafon scese la scala e sparì dalla vista. I due passeggeri si guardarono e poi volsero gli occhi al vasto spazio aperto tra il circolo interno delle pietre.

— E adesso che facciamo? — domandò Duefiori.

— Potremmo metterci a dormire? — suggerì Scuotivento.

Ignorandolo, l’ometto scese la scala.

Intorno al circolo, dei druidi battevano i megaliti con dei martelletti e ascoltavano attenti. Delle enormi pietre, diverse giacevano a terra su un fianco, ognuna circondata da un altro gruppo di druidi che le esaminavano con grande attenzione e discutevano tra loro. Frasi arcane arrivavano fino a Scuotivento, ancora seduto sul masso.

— Non può essere l’incompatibilità del software… il Canto della Spirale Calpestata è stato ideato per gli anelli concentrici, idiota che non sei altro…

— Io dico di farlo scattare di nuovo e provare una semplice cerimonia lunare…

— …va bene, va bene, le pietre sono a posto; è solo che l’universo non va, giusto?

Attraverso la nebbia della propria mente esausta, Scuotivento ricordò l’orribile stella che avevano vista nel cielo. La notte scorsa, qualcosa era andata storta con l’universo.

Come aveva fatto a ritrovarsi sul Disco? si chiese il mago.

Aveva il sospetto che la risposta dovesse trovarsi da qualche parte nella sua testa. E. sospetto ancora più sgradevole, sentì che un’altra cosa stava osservando la scena sottostante. La stava osservando da dietro i suoi occhi.

Abbandonando il suo riparo sprofondato nei sentieri vergini della sua mente, l’Incantesimo adesso gli si era insediato spavaldo nel proencefalo a contemplare la scena, occupato nell’equivalente mentale del mangiare popcorn.

Scuotivento cercò di ricacciarlo indietro… e il mondo svanì.

Lui era nell’oscurità: un’oscurità calda, ammuffita, l’oscurità della tomba, l’oscurità vellutata di un sarcofago.

C’era l’odore forte di vecchio cuoio e quello acre di carta antica. La carta frusciò.

Lui sentiva che l’oscurità era piena di orrori inimmaginabili. E il guaio con gli orrori inimmaginabili era che fossero fin troppo facili da immaginare. — Scuotivento — disse una voce. Scuotivento non aveva mai sentito parlare una lucertola, ma se una l’avesse fatto avrebbe avuto una voce come quella.