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Tenar andò alla porta, e fiutò l’odore di Muschio ancor prima di riconoscerla.

«Uomini al villaggio», bisbigliò la vecchia, in tono grave. «Gente elegante, venuta dal porto, dalla grande nave che è giunta dalla città di Havnor, dicono. Venuta a cercare l’Arcimago, dicono.»

«Non desidera vederli», disse Tenar, debolmente. Non aveva alcuna idea sul da farsi.

«Ne ero sicura», disse la strega. E dopo una pausa: «Dov’è, allora?»

«Sono qui», rispose Sparviero, avvicinandosi alla porta e spalancandola. «Hanno già saputo dove mi trovo?» chiese.

«Non da me», rispose Muschio.

«Se dovessero venire qui», osservò Tenar, «basterebbe dire loro di andarsene. Dopotutto, sei l’Arcimago.»

Né Ged né Muschio, però, badavano a lei, in quel momento.

«Non verranno certamente a cercarvi a casa mia», disse Muschio. «Venite pure, se volete.»

Ged la seguì, e rivolse un’occhiata a Tenar, ma senza parlare.

«Ma che cosa devo dire a quegli uomini, se vengono qui?» chiese Tenar.

«Non dirgli niente, cara», rispose la strega.

Erica e Therru fecero ritorno dallo stagno con un bottino che ammontava a sette rane in una borsa di rete, e Tenar si mise subito all’opera per tagliare le cosce, spellarle e prepararle per la cena delle cacciatrici. Aveva appena terminato, quando sentì giungere alcune voci dall’esterno e, alzando gli occhi verso la porta aperta, vide alcune persone ferme sulla soglia: uomini con il cappello in testa, luccichio di oro al collo, riflesso di gemme alle dita. «La signora Goha?» chiese uno di loro, in tono cortese.

«Oh, entrate!» rispose lei.

Entrarono: erano cinque uomini, che sembravano almeno il doppio del loro numero, nella piccola stanza dal soffitto basso. Erano tutti alti, e certamente erano grandi signori. Diedero un’occhiata attorno, e anche Tenar vide quel che vedevano i loro occhi.

Vedevano una donna in piedi accanto al tavolo, con in mano un coltello lungo e affilato. Sul tavolo un tagliere con, da un lato, un mucchietto di cosce di rana biancastre, dall’altro un mucchietto di rane morte, sporche di sangue. Nell’ombra, dietro la porta, qualcuno si nascondeva: una bambina, ma una bambina deforme, con solo mezza faccia e una mano rattrappita. Su un pagliericcio, sotto l’unica finestra della casa, una giovane donna, alta e ossuta, li fissava a bocca aperta. Aveva le mani sporche di fango, e la sua gonna bagnata puzzava di acqua stagnante. Quando si accorse di essere guardata, si nascose la faccia dietro la gonna, e così facendo si scoprì le gambe fino alla coscia.

Distolsero lo sguardo da lei e dalla bambina dietro la porta, e perciò non rimase loro altro da guardare che la donna con le rane.

«Signora Goha», ripeté uno di loro.

«Sì, sono io», rispose Tenar.

«Veniamo da Havnor, da parte del re», disse l’uomo dalla voce cortese. Aveva la faccia in ombra, e Tenar non riuscì a distinguerla. «Cerchiamo l’Arcimago Sparviero di Gont. Re Lebannen sarà incoronato all’equinozio d’autunno, e vorrebbe avere con sé l’Arcimago, suo signore e amico, durante i preparativi dell’incoronazione, nonché essere incoronato da lui, se accetta.»

L’uomo aveva parlato in tono solenne, ufficiale, come se si fosse rivolto a una dama di corte. Indossava semplici calzoni al ginocchio, di cuoio leggero, e una camicia di lino impolverata per la lunga arrampicata da Porto Gont, ma era di tela fine, con ricami d’oro intorno al collo.

«L’Arcimago non c’è», rispose Tenar.

Due ragazzini del villaggio fecero capolino alla porta, si tirarono indietro, si affacciarono di nuovo e poi corsero via schiamazzando.

«Forse potete dirci dove si trova in questo momento, signora Goha», insistette l’uomo.

«No, non posso dirlo.»

Tenar li osservò. A tutta prima, aveva avuto paura di loro — forse il panico di Ged si era trasmesso anche a lei, oppure la vista di quegli estranei le aveva causato una sorta di sciocca apprensione — ma ormai il timore si stava dileguando. Dopotutto, si trovava nella casa di Ogion, e sapeva bene perché Ogion non avesse mai avuto paura della gente importante.

«Dovete essere stanchi, dopo tanto cammino», disse loro. «Non volete sedervi? Ho del vino. Lavo solo i bicchieri.»

Prese il tagliere e lo posò sull’acquaio, mise le cosce di rana nella dispensa, buttò il resto nel secchio degli avanzi, che Erica portava poi ai maiali del tessitore del villaggio, si lavò le mani e le braccia nel catino, lavò il coltello, versò dell’acqua pulita e sciacquò i due bicchieri in cui avevano bevuto lei e Ged. Nella credenza c’erano un altro bicchiere e due tazze di terracotta, senza manico; li posò sul tavolo e servì il vino agli ospiti: nella bottiglia ne era rimasto a sufficienza per tutti. Gli uomini si erano scambiati un’occhiata e non si erano seduti. La scarsità di sedie li giustificava. Le regole dell’ospitalità, però, imponevano loro di accettare quel che veniva offerto. Ciascuno prese da lei il bicchiere o la tazza, mormorando un ringraziamento. Levarono il bicchiere verso di lei e bevvero.

«Per il mio nome!» esclamò uno di loro, sorpreso.

«Vino delle Andrades… La vendemmia tardiva», disse un altro, sgranando gli occhi.

Il terzo scosse la testa. «Andrades, Anno del Drago», disse con reverenza.

Il quarto annuì e bevve un secondo sorso, impressionato.

Il quinto, che era quello che aveva parlato per primo, sollevò di nuovo la tazza in direzione di Tenar e disse: «Voi ci accogliete con un vino da re, signora».

«Era di Ogion», rispose lei. «Questa era la casa di Ogion, e adesso è la casa di Aihal. Lo sapevate, signori?»

«Sì, signora. Il re ci ha indirizzato a questa casa, convinto che l’Arcimago venisse qui; se n’è ancor più convinto quando a Roke e a Havnor è giunta notizia della morte del suo maestro. Ma è stato un drago a portare l’Arcimago da Roke a qui. E, da allora, da lui non è giunta parola, né a Roke né al re. E sta molto a cuore al re, ed è nell’interesse di tutti sapere che l’Arcimago è qui, e che sta bene. Potete dirci se è venuto qui, signora?»

«Non posso dirlo, mi dispiace», rispose Tenar, ma era una risposta un po’ troppo ambigua, e per di più era la seconda volta che la dava: anche gli uomini l’avevano notato. Raddrizzò le spalle e chiarì: «Intendo dire che non posso parlare. Penso che se l’Arcimago vorrà venire, verrà, e che se invece non vorrà farsi trovare, non lo troverete. Non penso che andreste a cercarlo contro la sua volontà».

Il più vecchio di loro, e il più alto, disse: «La nostra volontà è quella del re».

E quello che aveva parlato per primo aggiunse, in tono conciliante: «Noi siamo solo messaggeri. Quel che c’è tra il re e l’Arcimago riguarda esclusivamente loro due. Noi vogliamo solo portare il messaggio. E la risposta».

«Se potrò, gli farò pervenire il vostro messaggio.»

«E la risposta?» chiese il più vecchio del gruppo.

Tenar non disse niente, e allora l’uomo che aveva parlato per primo aggiunse: «Rimarremo qui alcuni giorni, al castello del Signore di Re Albi, il quale, saputo dell’arrivo della nostra nave, ci ha offerto la sua ospitalità».

Chissà perché, Tenar ebbe l’impressione che fosse scattata una trappola o si fosse stretto un cappio. La vulnerabilità di Ged, la debolezza dell’Arcimago l’avevano contagiata. Non avendo altre armi, si difese con la sua maschera, il suo aspetto di semplice massaia di mezz’età. Ma era davvero una maschera? Era anche la verità, e quel genere di cose era ancor più sottile dei travestimenti e delle metamorfosi dei maghi. Piegò la testa da un lato ed esclamò: «Sarà molto più adatto alle vostre signorie. Come vedete, viviamo molto semplicemente, qui, come il vecchio mago».

«E bevete vino delle Andrades», disse quello che aveva riconosciuto l’annata: un bell’uomo, dagli occhi intelligenti e dal sorriso simpatico. Tenar, in ossequio alla sua parte, abbassò gli occhi. Ma quando si accomiatarono e uscirono, capì che, qualunque cosa sembrasse o facesse, se ancora non sapevano che lei era Tenar dell’Anello, presto lo avrebbero saputo; così avrebbero avuto la conferma che conosceva l’Arcimago e che poteva guidarli a lui, se davvero intendevano cercarlo.