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«È meglio che me ne vada, Tenar», disse Ged. «Finché non avrò imparato a essere quel che sono adesso.»

«Andare dove?»

«Sulla montagna.»

«A vagabondare… come Ogion?» Lo fissò. Si rammentò di quando camminava con Ged lungo le strade di Atuan, e si prendeva gioco di lui: «I maghi chiedono spesso la carità?» E Ged aveva risposto: «Sì, ma cercano sempre di dare qualcosa in cambio».

Gli chiese con cautela: «Per qualche tempo, non potresti andare avanti come mago della pioggia, o come cercatore?» E gli riempi il bicchiere.

Lui scosse la testa. Bevve il vino, poi distolse lo sguardo. «No», disse. «Niente del genere.»

Tenar non gli credette. Avrebbe voluto contraddirlo, protestare: come può essere, come puoi dire questo… come se avessi dimenticato tutto quello che conosci, tutto quello che hai imparato da Ogion e a Roke, e nei tuoi viaggi! Non puoi avere dimenticato le parole, i nomi, i gesti della tua arte. Hai imparato il tuo Potere, te lo sei guadagnato! Si trattenne dal dirglielo, ma mormorò: «Non capisco. Come può, tutto questo…»

«Un bicchiere d’acqua», spiegò Ged, inclinando un poco il bicchiere, come per versare il vino. E aggiunse, dopo un momento: «Ma non capisco perché mi ha riportato indietro. La gentilezza dei giovani è spesso crudele… Così, sono qui, e devo andare avanti, finché non ritornerò laggiù».

Tenar non capì esattamente quel che voleva dire, ma colse un accento di biasimo o di rimpianto che, in lui, la stupì e la irritò. Disse sostenuta: «È stato Kalessin a riportarti qui».

L’interno della casa era buio, con la porta chiusa: l’unica luce era quella del tardo pomeriggio, che filtrava dalla piccola finestra a occidente. Tenar non riusciva a cogliere l’espressione di Ged; ma questi levò il bicchiere nella sua direzione, e, con un pallido sorriso, bevve.

«Gran vino», sentenziò. «Ogion deve averlo avuto da qualche grosso mercante o da un pirata. Non ne ho mai bevuto uno così prelibato, neppure a Havnor.» Rigirò fra le dita il tozzo bicchiere, e lo fissò. «Mi darò un altro nome», disse, «e andrò dall’altra parte della montagna, ad Armouth e nella Foresta Orientale, dove sono nato. C’è la raccolta del fieno. Cercano sempre aiuto, all’epoca della fienagione e del raccolto.»

Tenar non rispose. Nelle condizioni in cui era Ged, fragile e malaticcio, gli avrebbero dato quel genere di lavoro solo per carità o per umiliarlo; e lui, in qualsiasi caso, non era in grado di svolgerlo.

«Le strade non sono più quelle di una volta», disse poi. «Negli ultimi anni si sono riempite di ladri e di bande di sfaccendati. Marmaglia straniera, come dice il mio amico Townsend. È sconsigliabile viaggiare da soli.»

Guardandolo nella penombra per controllare come accoglieva quella notizia, Tenar si chiese che cosa provasse Ged di fronte alla paura, una sensazione del tutto nuova per lui dato che, un tempo, nessun essere umano poteva spaventarlo.

«Ogion, però…» cominciò a dire Ged, e poi s’interruppe, ricordandosi solo allora che Ogion era un mago.

«Nella parte meridionale dell’isola», proseguì Tenar, «ci sono molti pascoli. Pecore, capre, mucche. Le portano sui monti prima della Grande Danza, e le pascolano lassù fino alle piogge. Hanno sempre bisogno di pastori.» Bevve un sorso del vino di Ogion. Le parve di avere nuovamente nella bocca il nome del drago. «Ma perché non puoi stare qui?»

«Non nella casa di Ogion. È il primo luogo dove verranno a cercarmi.»

«E anche se vengono? Che cosa vogliono da te?»

«Che torni a essere quello che ero.»

La sofferenza della sua voce la raggelò.

Tenar rimase in silenzio, cercando di ricordare che cosa si provasse a essere potente, a essere la Divorata, la sacerdotessa delle Tombe di Atuan, e poi a perdere tutto quel Potere, a gettarlo via, a diventare semplicemente Tenar, solo se stessa. Pensò a che cosa si provava a essere una donna nella primavera della vita, con i figli e un marito, e poi a perdere tutto, a diventare una vedova anziana e senza Potere. Ma non riuscì a comprendere la vergogna di Ged, il tormento della sua umiliazione. Forse solo un uomo poteva provarli. Una donna era abituata alle umiliazioni.

O forse aveva ragione Zia Muschio: una volta sparita la polpa, il guscio era vuoto.

Pensieri da strega, si disse. Allora, per distogliere la propria mente — e quella di Ged — da quel tipo di considerazioni, e perché il vino forte e profumato la rendeva ardita, disse, ridendo: «Sai, pensavo a Ogion che mi insegnava, e a me che invece di proseguire mi sono trovata un marito… Quel giorno, il giorno del mio matrimonio, mi sono detta: Ged se la prenderà, quando lo verrà a sapere!»

«Infatti», rispose lui.

Lei attese che continuasse.

Ged continuò: «Mi sono irritato».

«Incollerito», disse Tenar.

«Incollerito», confermò lui.

Le riempì il bicchiere.

«Avevo la capacità di riconoscere il Potere, allora», disse Ged. «E tu… ne risplendevi, in quel luogo terribile, il Labirinto, in quell’oscurità…»

«Dimmi, allora, che cosa avrei dovuto fare del mio Potere e delle conoscenze che Ogion aveva cercato di darmi?»

«Usarli», rispose Ged.

«E come?»

«Come viene usata l’arte magica.»

«Usata da chi?»

«Dai maghi», rispose Ged, un po’ a fatica.

«Magia sono dunque le arti e le pratiche dei maghi e dei sapienti?»

«Che altro significato può avere?»

«Non può davvero averne altri?» chiese Tenar.

Ged rifletté su quelle parole, e una o due volte incrociò lo sguardo con quello di Tenar.

«Quando Ogion mi insegnava», disse Tenar, «qui, accanto a questo stesso focolare, le parole della Lingua Vera erano forti e facili sulle mie labbra come sulle sue. Era come imparare di nuovo una lingua che parlavo prima di nascere. Ma il resto, i miti, le Rune di Potere, gli incantesimi, le leggi, l’evocazione delle forze, tutto era come morto per me. Una lingua straniera. A quell’epoca pensavo che avrei potuto vestirmi da guerriero, con la lancia e la spada e le piume sull’elmo, ma che non sarebbe stato adatto a me, vero? Che cosa avrei fatto della spada? Sarebbe bastata a fare di me un eroe? Mi sarei solamente trovata in abiti non adatti a me, e non sarei nemmeno riuscita a camminare.»

Bevve un sorso di vino.

«Perciò mi sono tolta tutto», concluse, «e mi sono rimessa i miei vestiti.»

«Che cosa ha detto Ogion, quando lo hai lasciato?»

«Che cosa diceva Ogion, in genere?»

A queste parole, sulle labbra di Ged ricomparve l’ombra di un sorriso.

Tenar annuì.

Dopo qualche istante, la donna proseguì, a voce più bassa: «Mi aveva preso come allieva perché eri stato tu a portarmi. Non avrebbe voluto avere altri apprendisti dopo di te, e non avrebbe mai preso una ragazza, se non per tua richiesta. Ma mi voleva bene. Mi trattava con rispetto. E io lo amavo e lo rispettavo. Tuttavia non poteva darmi quello che desideravo, e io non potevo prendere quello che aveva da darmi. Lui l’aveva capito. Eppure, Ged… quando ha visto Therru è stato diverso. Il giorno prima di morire. Tu dici — Muschio dice — che il Potere riconosce il Potere. Non so che cosa abbia visto in lei, ma Ogion mi ha detto: ‘Insegnale!’ e ha detto anche…»

Ged attese.

«Ha detto: ‘Impareranno a temerla’», continuò la donna. «E anche: ‘Insegnale tutto. Non Roke’. Non so che cosa intendesse dire. Come posso saperlo? Se fossi rimasta qui con lui, potrei saperlo, potrei essere in grado di insegnarle. Ma ho pensato: arriverà Ged, e lui saprà. Saprà che cosa insegnarle, che cosa deve sapere la mia povera piccola maltrattata.»

«Non lo so», rispose Ged, con voce molto bassa. «Ho visto… Nella bambina vedo solo il male che le è stato fatto.»

Bevve tutto il vino rimasto nel bicchiere.

«Non ho niente da darle», disse.

Qualcuno bussò alla porta, piano. Ged trasalì immediatamente e, con lo stesso scatto del corpo, cercò un posto dove nascondersi.