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Anche Schruille guardò il cerchio scintillante di sensori. «Tu parli di vita,» commentò. «Ma Max… è morto.»

Calapine si ricordò di quel particolare, poi ribatté, «Max può essere facilmente rimpiazzato.» Osservò Schruille, girando la testa per guardarlo direttamente, senza la mediazione del prisma. «Oggi sei davvero di umore morboso, Schruille. A quanto mi ricordo, hai pronunciato ben due volte la parola "morte".»

«Morboso, dici?» rispose Schruille. «Ma non sono stato io a cancellare Max.»

Calapine scoppiò a ridere. «Le mie reazioni sorprendono perfino me, Schruille!»

«Non hai notato alcun cambiamento nella quantità di enzimi che devi assumere?»

«Sì, ci sono state delle variazioni. E allora? Il tempo passa. Fa parte della vita. Bisogna sempre modificare qualcosa.»

«Senza dubbio,» si dichiarò d’accordo Schruille.

«Ma dove avranno trovato l’embrione?» si chiese Calapine, seguendo improvvisamente un altra linea di pensiero.

«Forse il nuovo Max riuscirà a scoprirlo,» disse Schruille.

«Sarà suo dovere.»

«Oppure sveglieremo un nuovo Max,» ironizzò Schruille.

«Non prenderti gioco di me, Schruille.»

«Non oserei mai.»

Ancora una volta Calapine lo fissò direttamente.

«E se quell’embrione sono stati loro a produrlo?» le chiese Schruille.

Calapine distolse lo sguardo. «Come, per tutto ciò che è giusto?»

«L’aria può essere depurata dal gas contraccettivo,» disse Schruille.

«Sei disgustoso!»

«Io? In ogni caso, ti sei chiesta cosa stava tentando di nascondere Potter?»

«Potter? Ma sappiamo cosa nascondeva.»

«Una persona tanto devota alla conservazione della vita… così com’è,» le ricordò Schruille. «Cosa nascondeva nella sua mente?»

«Potter non c’è più.»

«Ma cosa nascondeva?»

«Tu pensi che conoscesse l’origine della… interferenza esterna?»

«Forse. E lui, di sicuro, avrebbe saputo dove trovare un embrione.»

«Allora, se è come hai detto tu, la registrazione ci svelerà la fonte.»

«Sì, ho pensato anch’io a questa eventualità.»

Calapine lo fissò, questa volta attraverso il prisma. «È impossibile.»

«Cosa? Che io pensi?»

«Sai bene cosa volevo dire — quello che stai pensando.»

«Secondo me, è possibile.»

«No!»

«Sei decisamente cocciuta, Cal. Una donna dovrebbe essere l’ultima persona sulla terra a negare questa possibilità.»

«Ora sei davvero disgustoso!»

«Sappiamo che Potter ha scoperto un embrione fertile,» insisté Schruille. «Potrebbero averne molti, maschi e femmine. E dalla storia sappiamo quali siano le possibilità di queste unioni primitive. Esse sono parte della nostra eredità naturale.»

«Ciò che stai dicendo è incredibilmente volgare,» ansimò Calapine.

«Riesci ad affrontare un concetto come quello di morte, ma non questo,» commentò Schruille. «Molto interessante.»

«Disgustoso!» gridò lei.

«Ma possibile,» ribatté Schruille.

«E poi l’embrione sostituito non era fertile!» ribatté piccata Calapine.

«Un’altra ragione per cui sarebbero stati disposti a sacrificarlo al posto dell’altro, eh?»

«Ma dove troverebbero la vasca, le medicine, gli enzimi, i…»

«Dove sono sempre stati.»

«Cosa?»

«Hanno inserito di nuovo l’embrione dei Durant nella madre,» spiegò Schruille. «Di questo possiamo esserne certi. Ma non sarebbe stato egualmente logico lasciarlo là dov’era — non rimuoverlo dalla madre, non isolare i gameti in una vasca?»

Calapine era tanto sbalordita da essere incapace di replicare. Un sapore acido le invase la bocca; scioccata, si rese conto di star per vomitare. C’è qualcosa che non va nella prescrizione degli enzimi, pensò.

Si rivolse a Schruille con voce calma, lentamente. «Vado subito in Farmacia. Non mi sento bene.»

«Prego,» disse Schruille. Lanciò uno sguardo ai sensori video; erano tutti accesi.

Calapine scese con cautela dal trono, si lasciò trasportare dal raggio fino al segmento d’uscita. Prima di abbandonare il Globo, alzò lo sguardo verso la piattaforma, la sua mente in preda a un vago ricordo. Quale Max è stato… cancellato? Ne abbiamo avuti molti… era un modello perfetto per la Sicurezza. Pensò agli altri Max che si erano succeduti nei secoli, tutti eliminati non appena avevano iniziato a dar noia ai loro padroni. Erano una fila infinita, immagini riflesse da una moltitudine di specchi.

Cosa significa cancellare uno dei Max? si chiese. Io rappresento un’esistenza continua. Ma un clone non ricorda. Un clone rappresenta un’interruzione nella continuità.

A meno che le cellule non ricordino anch’esse.

Memoria… cellule… embrioni…

Pensò all’embrione nell’utero di Lizbeth Durant. Una cosa disgustosa, ma semplice. Così meravigliosamente semplice. Ebbe un nodo alla gola. Girandosi di scatto, Calapine scese nella Sala del Consiglio, diretta di corsa verso il Dispensatorio più vicino. E mentre correva, strinse a pugno la mano con cui aveva ucciso Max e annientato una megalopoli.

CAPITOLO DICIASSETTESIMO

«Le dico che mia moglie sta male!»

Harvey era chino su Igan, e tentava di scuoterlo dal sonno. Si trovavano in un’angusta stanza dalle pareti in terra battuta, con il soffitto in travi di plasmeld, e in un angolo un unico fotoglobo che spandeva una fievole luce giallastra. Cinque materassi erano accostati alle pareti: Boumour e Igan erano sdraiati su due di essi, uno di fronte all’altro, Svengaard giaceva su un terzo; gli altri due erano vuoti.

«Si sbrighi!» implorò Harvey. «Sta male.»

Igan grugnì, si rizzò a sedere. Diede un’occhiata al cronografo — in superficie il sole era sul punto di tramontare. Erano scesi in quel nascondiglio poco prima dell’alba, dopo una notte trascorsa a percorrere a piedi, con la guida di un forestale, sentieri tra i boschi che si snodavano apparentemente all’infinito. Gli doleva ancora tutto il corpo per quell’esercizio a cui non era decisamente abituato.

Lizbeth sta male?

Erano passati tre giorni da quando le era stato impiantato l’embrione. Le altre donne che si erano sottoposte all’operazione erano guarite in fretta, ma non erano state costrette a scarpinare una notte intera su sentieri di montagna.

«La prego, faccia in fretta,» lo esortò Harvey.

«Vengo, vengo,» disse Igan. E pensò, Com’è cambiato il tono della sua voce, ora che ha bisogno di me.

Anche Boumour si mise a sedere, gli chiese, «Vuoi che venga anch’io?»

«No, tu rimarrai qui e aspetterai Glisson,» rispose Igan.

«Glisson ha detto dove stava andando?»

«A cercare una guida. Presto farà buio.»

«Ma non dorme mai?» chiese Boumour.

«Per favore!» supplicò Harvey.

«Sì, va bene!» replicò in tono brusco Igan. «Quali sono i sintomi?»

«Vomita… dice di sentirsi svenire.»

«Mi faccia prendere la mia borsa.» Igan sollevò dal pavimento una grossa borsa nera, lanciò un’occhiata a Svengaard. Il suo respiro era ancora regolare, segno che il narcotico che gli avevano somministrato prima di andare anche loro a dormire non aveva ancora esaurito il suo effetto. Bisognava prendere una decisione su Svengaard. Quell’uomo li rallentava troppo.

Harvey tirò Igan per una manica.

«Sto venendo! Si calmi!» protestò Igan. Liberò il braccio, seguì Harvey attraverso un basso foro nella parete ad un’estremità della stanza, entrò in un locale identico a quello che aveva appena lasciato. Lizbeth giaceva dal lato opposto della stanza, su un materasso sotto un singolo fotoglobo.

Harvey le si inginocchiò accanto. «Sono qui, cara.»

«Harvey,» mormorò lei. «Harvey.»

Igan si unì a loro, estrasse dalla sua borsa un apparecchio diagnostico multi-funzione. Lo poggiò sul collo di Lizbeth, lesse le cifre che erano apparse sul quadrante. «Dov’è che le fa male?» chiese.