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«Prima di passare in sala da pranzo» disse poi, quando ebbero terminato lo sherry «desidero presentarvi mia figlia. È di là a occuparsi che tutto sia in ordine. Scusatemi un attimo che vado a chiamarla.»

Tornò di lì a pochi secondi.

«Questa è Irene» disse con un tono che rivelava l’orgoglio paterno. La presentò agli ospiti, lasciando Jimmy per ultimo.

Irene guardò il giovane, poi gli disse col più dolce dei sorrisi: «Credo che noi due ci conosciamo già.»

Jimmy diventò rosso, ma si riprese subito e le restituì il sorriso.

«Lo credo anch’io» rispose.

Era stato un vero imbecille a non averci pensato. Se soltanto avesse riflettuto un po’, avrebbe capito chi era la ragazza del bar. L’unico che poteva infrangere le regole, su Marte, era chi le aveva istituite. Jimmy aveva effettivamente inteso dire che il Presidente aveva una figlia di diciott’anni, ma non aveva collegato le due cose. Adesso tutto combaciava perfettamente: quando Hadfield e sua moglie si erano trasferiti su Marte avevano portato con sé la loro unica figlia. Era stato specificato appositamente in una clausola del contratto, e a nessun altro era stato poi concesso di fare altrettanto.

La cena fu ottima, ma per quel che riguardava Jimmy fu completamente sprecata. Non aveva esattamente perso l’appetito, sarebbe stato impossibile, ma mangiava distratto, svogliato. Poiché era seduto all’estremità della tavola, riusciva a vedere Irene solo se allungava il collo in un modo che non poteva affatto essere definito elegante e distinto. Fu soddisfatto quando la cena, come Dio volle, ebbe termine e tutti passarono nell’altra stanza per il caffè.

Gli altri due componenti della famiglia del Presidente marziano erano già in salotto in attesa degli ospiti, e naturalmente avevano occupato i posti migliori. Si trattava di una splendida coppia di gatti siamesi che scrutarono i visitatori con i loro occhi insondabili. Vennero presentati come Topazio e Turchese, e Gibson, il quale adorava i gatti, si mise subito ad accarezzarli per cattivarsene l’amicizia.

«A voi piacciono, i gatti?» chiese Irene a Jimmy.

«Oh, sì» mentì Jimmy che li odiava. «Da quanto tempo sono qui?»

«Da un anno circa. Pensate, sono gli unici animali di Marte! Chissà se apprezzano questo privilegio.»

«Marte comunque l’apprezza. Ma non sono un po’ viziati?»

«Non si lasciano viziare, sono troppo indipendenti. Non credo che vogliano veramente bene a nessuno, neppure a mio padre, per quanto lui si ostini a sostenere il contrario.»

Con grande diplomazia, sebbene a uno spettatore estraneo sarebbe apparso evidente, Jimmy riuscì a portare la conversazione su un terreno più personale. Scoprì così che Irene lavorava nella sezione contabile, ma era informatissima su tutto quello che si svolgeva al reparto amministrativo dove sperava di occupare un giorno un importante posto di direzione. Jimmy pensò che forse, in un certo senso, l’alta posizione del padre le era di ostacolo. Anche se per certi versi questo doveva averle reso la vita più facile, per altri invece doveva averle creato svantaggi innegabili, perché Porto Lowell era molto democratica.

Ma era molto difficile mantenere Irene sull’argomento Marte: la ragazza era assai più desiderosa di parlare di Terra, del pianeta che aveva lasciato bambina e che quindi aveva nel suo ricordo una irrealtà di sogno. Jimmy fece del suo meglio per rispondere a tutte le domande in modo esauriente, ben felice di discorrere di qualsiasi cosa che potesse tenere desto l’interesse della ragazza. Le parlò delle grandi metropoli terrestri, delle montagne e dei mari, dei cieli azzurri solcati di nubi, dei fiumi e degli arcobaleni… di tutte le cose insomma che Marte non aveva. E mentre parlava si sentiva sempre più preso dal fascino degli occhi ridenti di Irene. Ridenti. Non c’era altro modo per descriverli. Pareva che la ragazza condividesse con l’interlocutore una misteriosa allegria segreta.

A un certo punto Jimmy si accorse, che intorno a loro si era fatto un gran silenzio. Tutti guardavano lui e Irene.

«Se voi due avete finito di chiacchierare» disse il Presidente, «sarà meglio muoversi. Lo spettacolo comincia tra dieci minuti.»

Tutto Porto Lowell sembrava essersi pigiato nel minuscolo teatro. Il maggiore Whittaker, che li aveva preceduti per fissare i posti, li aspettava all’ingresso, e li accompagnò alle rispettive poltrone, un blocco di posti che occupavano quasi tutta la prima fila. Gibson, Hadfield e Irene erano al centro, fiancheggiati da Norden e Hilton, con grande dispiacere di Jimmy, al quale non restò altra alternativa che ammirare lo spettacolo.

Come tutte le rappresentazioni dilettantistiche anche quella era buona solo in parte. I pezzi musicali erano ottimi e c’era una mezzo soprano che avrebbe potuto dare dei punti a qualsiasi collega professionista terrestre. Gibson perciò non rimase sorpreso quando lesse accanto al suo nome, sul programma: "Ex artista del Teatro Reale dell’Opera del Covent Garden".

Seguiva quindi un intermezzo drammatico, con la classica eroina in pericolo e il solito cattivo che alla fine veniva punito. Al pubblico piacque, e i vari interpreti furono applauditi e fischiati a turno, a seconda della parte che interpretavano, e non mancarono i consigli e gli epiteti di rito a questo e a quello.

Si presentò quindi alla ribalta il più formidabile ventriloquo che Gibson avesse mai udito, finché verso la fine, giusto un attimo prima che l’attore rivelasse spontaneamente il trucco, si accorse che si trattava in realtà di un registratore nascosto dietro le quinte.

Il pezzo successivo era una satira bonaria di vita cittadina, talmente zeppa di allusioni locali che Gibson poté apprezzarla solo in minima parte. Comunque i lazzi del personaggio principale, un funzionario in preda a un continuo esaurimento nervoso, evidentemente ricalcato sul modello del maggiore Whittaker, strapparono al pubblico scoppi frenetici di risa, che aumentarono ancora quando il personaggio cominciò a essere assediato da un tale che lo tempestava di. domande idiote, segnandosi le risposte in un libriccino misterioso (che perdeva continuamente), e che tra una domanda e l’altra si affannava a fotografare tutto quello che vedeva.

Ci. volle un po’ prima che Gibson capisse a chi volevano alludere, e quando finalmente lo capì, diventò rosso come una roccia marziana, poi si rese subito conto che c’era una sola cosa da fare: ridere più forte degli altri.

Lo spettacolo si concluse con un coro generale, tipo di divertimento per il quale Gibson non aveva molte simpatie. Lo trovò però meno insopportabile di quello che si sarebbe aspettato, e mentre univa la sua voce a quelle degli altri nei ritornelli, si sentì prendere da un’improvvisa onda di emozione che gli impedì di continuare. Per un attimo rimase così, unico in silenzio fra tutta la folla cantante, a chiedersi che cosa diavolo gli fosse successo.

Ma le facce che vedeva intorno gli diedero subito la risposta: erano facce di uomini e di donne uniti da una causa comune, che andavano verso una comune mèta, e ognuno dei quali sapeva che la sua opera e il suo impegno erano essenziali per la vita della comunità. Quella gente provava un senso di pienezza che pochi sentivano sulla Terra, dove da tempo tutte le frontiere erano state raggiunte e superate. Era un sentimento ingigantito e reso ancor più intimo dal fatto che Porto Lowell era ancora talmente piccolo che i suoi abitanti si conoscevano uno per uno.

Fu forse in quell’attimo che Martin Gibson rinunciò alla Terra per Marte. Nessuno lo seppe mai. Anche quelli che aveva vicini, se pure si accorsero di qualcosa, notarono forse soltanto che lui aveva smesso di cantare ma per tornare subito a unirsi al coro con raddoppiata energia.

A gruppi di due o tre, chiacchierando, ridendo e cantando, il pubblico si disperse lentamente nella notte. Gibson e i suoi amici, dopo aver salutato il Presidente e il maggiore Whittaker, tornarono verso l’albergo. I due uomini che virtualmente governavano Marte lì accompagnarono con lo sguardo finché li videro sparire nelle anguste strade, poi Hadfield si rivolse alla figlia.