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Avevano attraversato la valle a zig-zag e si stavano inerpicando sul pendio opposto quando la loro guida fermò improvvisamente la vettura.

«Oh, questa è curiosa!» disse. «Non sapevo che ci fossero lavori in corso da queste parti!»

Per un attimo Gibson, che non era poi così buon osservatore come si illudeva di essere, non seppe dove guardare. Finalmente notò un solco di ruota appena visibile, perpendicolare con la direzione seguita da loro.

«Devono essere passati degli automezzi pesanti di qui» proseguì la guida. «Sono sicuro che questo solco non c’era l’ultima volta che sono venuto da queste parti… quando è stato? Vediamo… circa un anno fa. E da quella volta non c’è stata nessuna spedizione all’Erythraeum.»

«Dove conduce?» chiese Gibson.

«Risalendo la valle e passando sull’altra parte si torna a Porto Lowell. È quello che avevo intenzione di fare io. Nel senso opposto invece si va al mare.»

«Abbiamo ancora tempo. Andiamo un po’ da quella parte!»

Il geologo acconsentì di buon grado. Girò la pulce e puntò verso il fondo valle. Di tanto in tanto, nei tratti di terreno formato da roccia levigata, la pista scompariva per riapparire però quasi subito. A un certo punto però la persero definitivamente.

La guida fermò l’automezzo.

«Adesso capisco» disse. «Può essere andato soltanto da quella parte. Avete notato un passo, a un chilometro circa da qui? Scommetto dieci contro uno che si è diretto là.»

«E cosa c’è da vedere, là?»

«Questo è il curioso: si tratta di un vero e proprio vicolo cieco. C’è, è vero, un interessante anfiteatro naturale del diametro di due chilometri circa, ma non è possibile uscirne se non dalla parte da cui si è entrati. Ci ho passato un paio d’ore, una volta, quando abbiamo cominciato a fare i primi rilievi della regione. È un posto gradevole, ben riparato, e che in primavera offre un po’ d’acqua.»

«Un ottimo rifugio per contrabbandieri» osservò Gibson.

La stretta gola aveva certo ospitato un tempo un affluente del fiume principale, e percorrerla era assai più difficile di quanto non fosse stato viaggiare lungo la valle centrale. Bastarono comunque pochi metri per capire che avevano indovinato: la pista infatti era ricomparsa subito chiarissima.

«Qui hanno fatto saltare qualcosa» disse il geologo. «Questo tracciato non esisteva quando sono venuto qui la prima volta. Ricordo che ho dovuto compiere un giro vizioso su per quel pendio, e che ho rischiato di dover abbandonare la pulce.»

«Chissà che cosa stanno facendo» disse Gibson, elettrizzato dalla curiosità professionale.

«Non lo so. Ci sono alcuni piani di ricerche talmente specializzate che se ne sente parlare molto poco. Certe cose non si possono fare vicino alla città, capite? Può darsi che stiano costruendo un osservatorio magnetico, almeno così ho sentito dire ultimamente. A Porto Lowell i generatori sarebbero ottimamente schermati dalle colline. Ma non credo che si tratti di questo perché se fosse così me l’avrebbero detto… Ehi, ma che cos’è quello?»

Di fronte a loro si stendeva un ovale di verde quasi perfetto, fiancheggiato dalle basse colline color ocra. Forse quella conca aveva raccolto un tempo un pittoresco lago alpino, e ancora oggi offriva un conforto all’occhio stanco di tutta quella roccia multicolore ma priva di vita. Per il momento però Gibson non degnò neppure di uno sguardo lo smagliante tappeto vegetale, perché era rimasto a fissare trasognato un assembramento di cupole raggruppate al limite della piccola pianura. Parevano una riproduzione in miniatura di Porto Lowell.

Proseguirono in silenzio lungo la strada che era stata aperta attraverso il vivo tappeto verde. Fuori dalle cupole non c’era nessuno, ma un grosso veicolo da trasporto, grande almeno cinque volte la loro pulce, sostava all’esterno indicando chiaramente che dentro qualcuno doveva pure esserci.

«Ma questo è un impianto in piena regola» disse lo scienziato, sempre più sorpreso, mentre si sistemava la maschera. «Avranno certamente avuto le loro buone ragioni per spendere chissà quanto. Aspettate qui che io vado a dare un’occhiata.»

Lo videro scomparire nel compartimento stagno della cupola principale e agli impazienti passeggeri parve che la sua assenza si prolungasse per un tempo lunghissimo. Infine videro la porta esterna riaprirsi e la loro guida uscirne e avviarsi lentamente verso di loro.

«Allora?» domandò Gibson mentre il giovane risaliva sull’automezzo. «Cosa vi hanno detto?»

Il geologo non rispose. Senza parlare avviò il motore, e la pulce del deserto cominciò a muoversi.

«Be’? E la tanto decantata ospitalità marziana?» protestò Mackay.

«Non ci hanno invitati a entrare?»

Il geologo sembrava estremamente impacciato. La sua faccia aveva l’espressione di chi si è reso conto di aver commesso una fesseria. Almeno così parve a Gibson. Il giovane si schiarì nervosamente la voce.

«È una stazione di ricerche» disse, cercando accuratamente le parole. «È poco che l’hanno impiantata, e per questo io non ne sapevo niente. Non possiamo entrare perché tutto è completamente sterilizzato, e non vogliono correre il rischio che i visitatori portino dentro delle spore. Avremmo dovuto cambiarci da capo a piedi e fare un bagno nel disinfettante.»

«Capisco» disse Gibson. Qualcosa gli diceva di non insistere con le domande. Grazie al suo infallibile intuito aveva capito che la sua guida gli aveva detto solo una parte della verità, e la meno importante. In quel momento tutti i dubbi che si erano accumulati nella sua mente si riproposero alla sua attenzione. Tutto era cominciato ancora prima del suo arrivo su Marte, era cominciato con il dirottamento dell’Ares da Phobos. E adesso era andato a inciampare in questa stazione segreta di ricerche. Era stata una sorpresa non soltanto per loro ma persino per il geologo che pure si vantava di essere al corrente di tutto quello che succedeva sul pianeta, e che ora cercava, in modo davvero commovente, di rimediare alla sua involontaria indiscrezione.

Qualcosa stava bollendo in pentola. Che cosa, Gibson non poteva immaginarlo, ma doveva essere certamente qualcosa di grosso perché interessava non soltanto Marte ma anche Phobos. Era qualcosa che la maggior parte dei coloni ignorava, e che si affrettava a tenere nascosta non appena ne veniva involontariamente a conoscenza.

Marte dunque nascondeva un segreto. E a chi lo teneva nascosto se non alla Terra?

10

Il Grand Hotel marziano aveva ora ben due residenti, il che imponeva al suo personale improvvisato uno sforzo non comune. Gli altri compagni di viaggio di Gibson si erano sistemati chi qua e chi là presso privati, ma poiché Jimmy non conosceva nessuno a Porto Lowell aveva deciso di accettare l’ospitalità offertagli dal giornalista. Gibson si chiedeva se l’esperimento sarebbe riuscito. Non aveva alcuna intenzione di forzare troppo la loro amicizia finora alquanto superficiale, e se Jimmy lo avesse frequentato troppo i risultati avrebbero potuto essere disastrosi. Ricordava un epigramma lanciato una volta al suo indirizzo dal suo peggiore nemico: "Può darsi che Martin sia un tipo in gamba, ma è certo che è meglio stargli alla larga". In quella frase c’era una certa dose di pungente verità, e Gibson non desiderava esperimentarne l’esattezza proprio in quella particolare occasione.

La sua vita nella cittadina aveva ormai preso un ritmo normale. Il mattino lo dedicava al lavoro, a mettere cioè sulla carta le sue impressioni marziane. Un’impresa alquanto presuntuosa considerate le poche esperienze avute sino a quel momento. Il pomeriggio era riservato invece ai giri di ispezione e ai colloqui e interviste con gli abitanti del Porto.

Una volta l’intero equipaggio dell’Ares andò ad assistere ai progressi compiuti dal dottor Scott e dai suoi colleghi nella lotta contro la febbre marziana. Era ancora troppo presto per trarre conclusioni positive, ma Scott sembrava alquanto ottimista. «Avremmo bisogno di una bella epidemia in grande stile» disse fregandosi le mani. «Solo così potremmo provare veramente l’efficacia di questa roba. Per il momento i casi di febbre sono troppo scarsi.»