Изменить стиль страницы

«Quando ieri sono entrato nella Cupola Sette, tutto questo grande spazio era coperto da una specie di lenzuolo trasparente assicurato al muro circostante. Questo lenzuolo giaceva floscio al suolo formando pieghe enormi sotto cui fummo costretti a farci strada a fatica. Provate a immaginare come si sta all’interno di un pallone sgonfiato, e capirete esattamente la sensazione che ho provato io là sotto. L’involucro della cupola è di plastica resistentissima, di una trasparenza quasi perfetta ed estremamente flessibile: come una specie di cellophane molto spesso.

«Naturalmente ero munito di maschera a ossigeno perché, per quanto fossimo isolati dal mondo esterno, nella cupola praticamente non c’era ancora aria. La stavano pompando il più rapidamente possibile, ed era interessante osservare il pigro muoversi delle immense pieghe di materia plastica a mano a mano che la pressione aumentava.

«Questa operazione durò per tutta la notte. Questa mattina sono tornato alla cupola. L’involucro si era gonfiato sino a formare un’enorme bolla al centro, mentre tutto attorno era ancora piatto. Questa specie di fantastica bolla di sapone del diametro di quasi cento metri cercava di spostarsi continuamente, con movimenti da creatura viva, e seguitava a gonfiarsi.

«Verso metà mattina era talmente cresciuta che già si vedeva l’intera cupola prendere forma: l’involucro si era completamente sollevato dal suolo. Il pompaggio venne interrotto per un certo tempo per controllare che non ci fossero fughe, e fu poi ripreso verso mezzogiorno. Intanto era iniziata anche l’azione del Sole che con il suo calore contribuiva al dilatarsi dell’aria.

«Tre ore fa si è concluso il primo stadio di gonfiamento. Ci siamo tolte le maschere e abbiamo lanciato un fragoroso evviva. L’aria non era ancora sufficientemente densa per essere confortevole ma era comunque respirabile, e i tecnici hanno potuto proseguire nel loro lavoro senza l’intralcio delle maschere. Nei prossimi giorni saranno impegnati nei necessari collaudi e nei controlli di eventuali fughe. Ce ne sarà probabilmente qualcuna, ma sino a quando la perdita d’aria non supera un certo livello non c’è motivo di preoccupazione.

«Come vedete, dunque, abbiamo spinto un poco più oltre le nostre frontiere marziane. Ben presto sotto la Cupola Sette si allineeranno i nuovi fabbricati, e stiamo già facendo progetti per la creazione di un minuscolo parco e persino di un lago che sarà, almeno per ora, l’unico di questo pianeta perché, come sapete, qui l’acqua non può sussistere per molto in spazio aperto.

«Certo, siamo solo al principio, e un giorno tutto questo ci sembrerà ben poca cosa. Per il momento è un bel passo avanti nella nostra battaglia, e per noi rappresenta la conquista di una nuova fetta di Marte. E soprattutto significa spazio vitale per altre mille persone almeno. Mi avete ascoltato, Terra? Buona sera.»

La luce rossa si spense. Per un attimo Gibson restò come inchiodato davanti al microlono, assorto nella riflessione che le sue prime parole, pur viaggiando nello spazio alla velocità della luce, sarebbero arrivate sulla Terra solo allora. Infine raccolse pensosamente le sue cartelle e passando dalle porte imbottite rientrò nella sala di regia.

Una segretaria gli porse un ricevitore. «Vi hanno chiamato in questo momento al telefono, signor Gibson» disse. «Non vi lasciano nemmeno un attimo di respiro!»

«Già» fece Gibson ridendo. «Pronto, qui parla Gibson.»

«Sono Hadfield. Congratulazioni, Gibson. Ho ascoltato la vostra trasmissione. Ero collegato con la stazione locale.»

«Sono contento che vi sia piaciuta.»

«Come probabilmente immaginate, conosco quasi tutti i vostri scritti precedenti. Mi ha molto interessato notare il vostro mutamento di posizione.»

«Come sarebbe a dire?»

«In principio scrivevate in terza persona plurale, adesso siamo passati al noi. Forse non mi sono espresso con molta eloquenza, ma con chiarezza certamente.»

Poi, prima di dare a Gibson il tempo di replicare, proseguì: «In realtà vi ho telefonato, per dirvi che finalmente ho potuto sistemare la vostra gita a Skia. Abbiamo un apparecchio a reazione per passeggeri che ci va mercoledì. A bordo c’è posto per tre persone. Whittaker vi darà tutti i particolari. Arrivederci.»

La comunicazione venne chiusa. Pensoso ma assai soddisfatto, Gibson depose il ricevitore. Quello che il Presidente gli aveva detto corrispondeva esattamente alla verità. Era arrivato da un mese circa, e in quei trenta giorni il suo atteggiamento nei riguardi di Marte era mutato radicalmente. Le prime emozioni entusiastiche e un poco infantili erano durate solo pochi giorni, le successive delusioni, un po’ più a lungo. Ora conosceva a sufficienza la colonia per considerarla con un interesse più distaccato sì, ma non del tutto razionale. Esitava ad analizzare questo suo stato d’animo per timore di distruggerlo totalmente. Esso proveniva in parte, lo sapeva, dal rispetto sempre crescente per le persone che lo circondavano. Le ammirava per la loro competenza, per il buon senso, per la prontezza e, al tempo stesso, il freddo calcolo con cui sapevano affrontare rischi anche gravi, tutte qualità che avevano consentito loro non solo di sopravvivere in un ambiente ostile ma di gettare le fondamenta della prima civiltà extra-terrestre.

Finalmente era venuta per lui la prima vera occasione di conoscere Marte più da vicino. Mercoledì sarebbe partito in volo per Porto Schiaparelli, la seconda città del pianeta, situata a dieci chilometri in direzione est, nel Trivium Charontis. Il viaggio era stato progettato sin da quindici giorni, ma ogni volta era successo qualcosa che l’aveva rimandato. Avrebbe dovuto avvertire Jimmy e Hilton di tenersi pronti… erano stati i fortunati del sorteggio. Forse Jimmy adesso era meno entusiasta di partire di quanto lo sarebbe stato all’inizio. Il ragazzo doveva contare ansiosamente i giorni che ancora gli restavano da passare su Marte e tutto quello che lo teneva lontano da Irene doveva irritarlo. Ma se avesse rifiutato un’occasione come quella, Gibson sentiva che gli avrebbe tolta gran parte della sua stima e del suo affetto.

«Niente male, vero?» disse con orgoglio il pilota. «Ce ne sono soltanto sei come questo su Marte. È stato un vero mostro di abilità l’uomo che ha progettato un simile apparecchio a reazione, capace di volare in una atmosfera come questa, anche se la scarsa gravità ci viene un poco in aiuto.»

Gibson non era abbastanza esperto in aerodinamica per apprezzare le doti particolari del velivolo. Aveva solo notato che le ali avevano una larghezza insolita. I quattro motori a reazione erano abilmente dissimulati rasente alla fusoliera, e la loro posizione era svelata soltanto da un lieve rigonfiamento. Se avesse visto un apparecchio come quello su un qualsiasi aeroporto terrestre Gibson non ci avrebbe fatto caso. Forse sarebbe stato colpito soltanto dal massiccio carrello d’atterraggio. Quella era una macchina costruita per volare veloce e percorrere lunghe distanze, e adatta ad atterrare su qualsiasi superficie.

Salì a bordo dopo Jimmy e Hilton e si sistemò il più comodamente possibile nello spazio ristretto. Quasi tutta la cabina era ingombra di grosse casse saldamente assicurate. Forse un carico urgente per Skia.

I motori aumentarono rapidamente i giri finché il loro gemere stridulo raggiunse il limite massimo di sopportazione dei timpani. Seguì la normale pausa dedicata dal pilota all’esame degli strumenti e dei controlli, infine i turbogetti si aprirono al massimo e la pista di lancio prese a slittare sotto di loro. Pochi secondi dopo ci fu l’improvviso, rassicurante scoppio d’energia mentre i razzi di decollo s’accendevano e l’aereo veniva sollevato senza sforzo nel cielo. L’apparecchio acquistò quota e puntò deciso in direzione sud, quindi virò a destra descrivendo un ampio cerchio sopra la città.