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Varie volte al giorno andavo nella sua casa da apprendista: era la più lontana dal comprensorio principale, quasi un quarto di miglio a nord, verso le montagne. Aenea non c’era mai — non aveva legato il telo della porta e aveva lasciato un biglietto dove diceva di non preoccuparmi, che era solo una delle sue escursioni e che aveva portato con sé un mucchio d’acqua — eppure a ogni visita apprezzavo di più quel suo rifugio.

Quattro anni prima, quando lei e io eravamo giunti in quel deserto a bordo di una navetta rubata alla Flotta della Pax, tutt’e due esausti, coperti di lividi e di ustioni, per non parlare dell’androide ancora chiuso nello scomparto del robochirurgo in attesa di guarire, il Vecchio Architetto e gli altri apprendisti ci avevano accolti con calore e benevolenza. Il signor Wright non era rimasto sorpreso, pareva, che una bambina di dodici anni avesse attraversato per teleporter un pianeta dopo l’altro, cercando proprio lui per chiedergli di accettarla come apprendista. Ricordo bene quel primo giorno. Quando il Vecchio Architetto le aveva domandato cosa sapesse di architettura, Aenea aveva risposto: "Nulla, a parte che lei è la persona da cui dovrei imparare".

Evidentemente era stata la risposta giusta. Il signor Wright le aveva detto che a tutti gli apprendisti giunti prima di lei (tutti gli altri ventisei, si scoprì) era stato chiesto di progettare e costruire la propria casa nel deserto, come una sorta di esame d’ammissione. Le aveva fornito alcuni materiali grezzi conservati nel comprensorio — tela, pietra, cemento, un po’ di legname scartato — ma progetto e costruzione toccavano a lei.

Prima di iniziare i lavori (non essendo apprendista, mi accontentai di una tenda nelle vicinanze del comprensorio principale) Aenea e io facemmo il giro delle case degli altri apprendisti. Per la maggior parte erano variazioni sul tema tenda-baracca. Erano funzionali e alcune mostravano stile — una in particolare sfoggiava un’eleganza di progettazione, ma, come notò Aenea, non avrebbe tenuto fuori la sabbia o la pioggia in caso di vento anche minimo — ma nessuna era davvero memorabile.

Aenea lavorò undici giorni per costruire la propria casa. L’aiutai in alcuni dei lavori più pesanti e negli scavi (A. Bettik a quel tempo era ancora convalescente, prima nel robochirurgo e poi nell’infermeria del comprensorio) ma Aenea concepì tutto il progetto ed eseguì la maggior parte del lavoro. Il risultato era quel meraviglioso rifugio che in quel periodo, la sua ultima pausa nel deserto, visitavo quattro volte al giorno.

Aenea aveva fatto uno scavo per le sezioni principali, cosicché il rifugio si trovava quasi tutto sotto il livello del suolo. Poi vi sistemò delle lastre di pietra, assicurandosi che combaciassero bene, in modo da avere un liscio pavimento. Sulle lastre di pietra dispose tappeti dai vivaci colori e coperte barattate al mercato indiano distante quindici miglia. Intorno al nucleo della casa eresse pareti alte circa un metro che, con la stanza principale interrata, parevano più alte. Erano fatte della stessa grossolana "muratura del deserto" adoperata dal signor Wright per costruire le mura e le sovrastrutture degli edifici del comprensorio principale. Aenea usò la stessa tecnica, anche se non aveva mai sentito il Vecchio Architetto descriverla.

Per prima cosa raccolse pietre dal deserto e dai molti arroyos e torrenti in secca intorno all’altura del comprensorio. Quei sassi erano di tutte le dimensioni e di tutti i colori — viola, nero, rosso ruggine, terra d’ombra — e in qualche caso avevano petroglifi o fossili. Raccolti i sassi, Aenea costruì forme di legno e vi sistemò le pietre più grandi, col lato piatto contro la faccia interna della forma. Poi trascorse giorni sotto il sole ardente a spalare sabbia dai torrenti in secca e a trasportarla con una carriola al luogo della costruzione; lì la mischiò al cemento ed ebbe il conglomerato che, indurito, avrebbe tenuto a posto le pietre. Era una mistura cemento/pietra — muratura del deserto, la chiamava il signor Wright — rozza ma di insolita bellezza, perché i colori delle pietre trasparivano dal conglomerato e dappertutto c’erano crepe e tessiture di roccia. Una volta a posto, le pareti erano alte circa un metro e abbastanza spesse da non far entrare il calore del deserto di giorno e trattenere il calore interno di notte.

Quella casa era più complicata di quanto non sembrasse a prima vista: passarono mesi, prima che apprezzassi gli ingegnosi accorgimenti che Aenea aveva usato nella progettazione. Ci si doveva chinare per entrare nel vestibolo e attraversare un’antiporta di pietra e di tela, con tre larghi scalini che portavano in basso e giravano intorno fino alla porta di legno e muratura che serviva da ingresso alla stanza principale. Quel vestibolo a chiocciola in discesa agiva come una sorta di camera stagna, tenendo fuori la sabbia e l’asprezza del deserto; e il modo in cui Aenea aveva montato la tela, quasi come vele di fiocco sovrapposte in parte, migliorava l’effetto camera stagna. La "stanza principale" misurava solo tre metri per cinque, ma pareva molto più ampia. Aenea aveva disposto delle panche incassate intorno a un tavolo di pietra per creare una zona pranzo e soggiorno, poi aveva sistemato altre nicchie e sedili di pietra accanto al focolare nella parete nord. Nella parete c’era un vero camino di pietra, che in nessun punto toccava la tela o il legno. Fra le pareti di pietra e la tela, circa ad altezza d’occhio di una persona seduta, Aenea aveva montato finestre schermate che correvano lungo i lati nord e sud della casa. Quelle feritoie panoramiche potevano essere coperte da scuri mobili sia di tela sia di legno, azionati dall’interno. Per il tetto Aenea aveva adoperato vecchi tondini di fibra di vetro trovati nel mucchio di cianfrusaglie del comprensorio e aveva sagomato la tela in dolci archi, in cuspidi improvvise, in voltoni da cattedrale, in bizzarre nicchie pieghevoli.

Per sé aveva preparato una vera camera da letto, separata dalla stanza principale mediante due scalini sfasati ad angoli di sessanta gradi: una nicchia nel lieve pendio, alla quale faceva da parete di fondo un enorme masso trovato sul posto. La casa non aveva acqua né impianti igienici — tutti usavamo le docce e i gabinetti della comunità, posti nella dipendenza del comprensorio principale — ma Aenea aveva costruito vicino al letto — una piattaforma di compensato, con materasso e coperte — una piccola graziosa vasca da bagno e varie volte alla settimana scaldava l’acqua nella cucina del campo e la portava al suo rifugio, secchio per secchio, per un bagno caldo.

Le luce che entrava dal soffitto e dalle pareti di tela era calda all’alba, pastosa a mezzodì, arancione alla sera. Aenea poi aveva studiato con cura la posizione della casa in rapporto a saguari, fichi d’India e cactus ramificati, in modo che differenti ombre cadessero su differenti piani di tela in differenti periodi della giornata. Era un posto comodo, piacevole. E terribilmente vuoto, quando la mia giovane amica si assentava.

Ho già detto che gli apprendisti e i collaboratori erano ansiosi, dopo la morte del Vecchio Architetto. Sconvolti sarebbe forse una definizione migliore. Per la maggior parte dei tre giorni di assenza di Aenea rimasi ad ascoltare il chiacchiericcio preoccupato di quasi novanta persone — mai insieme, poiché perfino i turni nel refettorio erano distanziati, dal momento che al signor Wright non piaceva folla a pranzo — e il livello di panico pareva salire col susseguirsi dei giorni e delle tempeste di sabbia. L’assenza di Aenea contribuiva notevolmente ad accrescere l’isteria: lei era la più giovane degli apprendisti a Taliesin (la più giovane di tutti, in realtà) ma gli altri si erano abituati a chiederle consiglio e ad ascoltarla, quando parlava. In una sola settimana avevano perduto il loro mentore e la loro guida.

Il quarto mattino dopo il compleanno di Aenea, le tempeste di sabbia cessarono ed Aenea ritornò. Per combinazione ero fuori nel deserto a fare jogging proprio dopo l’alba e la vidi giungere dalla direzione dei monti McDowell: si stagliava nella luce del mattino, una figura sottile dai capelli corti contro lo splendore della corona solare; in quell’attimo pensai alla prima volta che l’avevo vista, nella valle delle Tombe del Tempo, su Hyperion.