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Aenea scosse la testa. Avevamo già discusso quell’argomento. Non avevo capito il concetto allora e non lo capivo adesso.

«Questi cìbridi sono collegati a Intelligenze Artificiali che non fanno realmente parte del Nucleo» disse Aenea. «La personalità del signor Wright non ne faceva parte. E neppure mio padre… il secondo cìbrido di Keats.»

Questo era il passaggio che non avevo mai capito. «I Canti dicono che i cìbridi di Keats, tuo padre incluso, furono creati da Ummon, una IA del Nucleo. Ummon disse a tuo padre che i cìbridi erano un esperimento del Nucleo.»

Aenea si alzò e si accostò all’apertura della sua casa da apprendista. La tela ai lati si increspava nel vento, ma manteneva la forma e impediva alla sabbia di entrare. Aenea l’aveva costruita bene. «Nei suoi Canti zio Martin raccontò la verità come meglio poteva» disse. «Ma c’erano elementi che non capiva.»

«Nemmeno io.» Lasciai cadere l’argomento. Mi accostai a Aenea e la circondai col braccio, sentendo gli indefinibili cambiamenti nella sua schiena, spalla e braccio, dalla prima volta che l’avevo stretta in quel modo, quattro anni prima. «Buon compleanno, ragazzina.»

Aenea mi diede un’occhiata e poi mi appoggiò sul petto la testa. «Grazie, Raul.»

Nella mia giovane amica c’erano stati altri cambiamenti dal nostro primo incontro, quando lei aveva solo dodici anni standard. Vedevo benissimo che ormai era diventata donna; però, malgrado i fianchi più arrotondati e il chiaro rigonfiamento dei seni sotto la vecchia felpa, non la vedevo ancora come donna. Non più bambina, certo, ma non ancora donna. Era… Aenea. I suoi luminosi occhi neri erano sempre uguali, intelligenti, curiosi, un po’ tristi per chissà quale conoscenza segreta; e l’effetto di contatto fisico, quando ti guardava, era intenso come sempre. Negli ultimi anni i capelli castani si erano un po’ scuriti e lei li aveva tagliati, la primavera scorsa: adesso erano più corti di come li avevo io una decina d’anni fa, durante il mio servizio nella Guardia nazionale su Hyperion; quando le accarezzai la testa, erano lunghi appena da sollevarsi fra le dita… ma vi scorgevo qualche traccia delle vecchie striature bionde, rilasciate dai lunghi giorni di lavoro sotto il sole dell’Arizona.

Mentre ce ne stavamo lì ad ascoltare il brusio della sabbia sulla tela (A. Bettik, alle nostre spalle, pareva un’ombra silenziosa) Aenea mi prese la mano fra le sue. Quel giorno compiva sedici anni, forse era già una giovane donna, non più una ragazzina, ma le sue mani erano sempre minuscole a confronto delle mie.

«Raul?»

La guardai in silenzio.

«Farai per me una cosa?» domandò lei piano, molto piano.

«Sì» risposi senza esitare.

Mi strinse la mano e mi guardò dritto negli occhi. «Farai per me una cosa domani?»

«Sì.»

Non staccò lo sguardo né allentò la stretta. «Farai per me qualsiasi cosa?»

Stavolta esitai. Sapevo che cosa poteva comportare una simile promessa, anche se quella insolita e meravigliosa ragazzina non mi aveva mai chiesto di fare qualcosa per lei, non mi aveva nemmeno chiesto di accompagnarla in quella folle odissea. L’avevo fatta al vecchio poeta Martin Sileno, quella promessa, prima ancora di conoscere Aenea. Sapevo che c’erano cose che non avrei mai potuto fare, in coscienza, per il meglio o per il peggio. Ma, prima di tutto, non ero capace di dire no a Aenea.

«Sì» risposi. «Farò qualsiasi cosa tu chieda.» In quel momento capii di essere perduto… e riportato in vita.

Aenea non disse niente, si limitò ad annuire, a stringermi la mano un’ultima volta e a girarsi verso la luce, la torta e il nostro amico androide. L’indomani avrei scoperto che cosa significava realmente la sua richiesta e quanto mi sarebbe stato difficile onorare la promessa.

Faccio una piccola interruzione. Mi rendo conto che forse non sapete nulla di me, se non avete letto le prime centinaia di pagine della mia storia che, dovendo riciclare i fogli di micropergamena su cui scrivevo, ormai esistono solo nella memoria di questo grafer. Ho detto la verità, in quelle pagine perdute. Almeno, la verità come la conoscevo a quel tempo. In ogni caso, ho cercato di dire la verità. Quasi sempre.

Poiché ho riciclato le pagine di micropergamena su cui avevo stampato il primo tentativo di raccontare la storia di Aenea e poiché ho sempre avuto sott’occhio il grafer, devo presumere che nessuno le abbia lette. Il fatto che le abbia scritte mentre mi trovavo in un ovoide per condannati a morte basato sul principio della scatola del gatto di Schrödinger, in orbita intorno al mondo sterile di Armaghast (l’ovoide era poco più di un guscio d’energia a posizione fissa, contenente l’aria da respirare, l’apparecchiatura di riciclaggio dell’aria e del cibo, il letto, il tavolo, il grafer e una fiala di gas cianuro pronto a uscire alla prima casuale emissione di isotopi) in teoria dovrebbe garantire che non abbiate letto quelle pagine.

Ma non ne sono sicuro.

A quel tempo accadevano cose bizzarre. Da allora sono accadute cose bizzarre. Perciò mi riservo il giudizio: non faccio ipotesi sul fatto che quelle — e queste — pagine siano state lette o saranno mai lette.

Nel frattempo, mi presento di nuovo. Mi chiamo Raul Endymion. Il mio cognome deriva dalla città universitaria "abbandonata", Endymion, sullo stagnante pianeta Hyperion. Ho messo fra virgolette "abbandonata" perché proprio in quella città in quarantena incontrai il vecchio poeta Martin Sileno, l’anziano autore del poema epico messo al bando, i Canti, e lì iniziò la mia avventura. Uso con una certa ironia questa parola, nel senso che tutta la vita è avventura. Così il viaggio che iniziò come un’avventura — il tentativo di salvare dalla Pax la dodicenne Aenea e di scortarla sana e salva nella lontana Vecchia Terra — da allora è divenuto un’intera vita di amore, perdita e meraviglia.

Comunque, al tempo di questo racconto, nella settimana della morte del papa, della morte del Vecchio Architetto e dell’infausto sedicesimo compleanno in esilio di Aenea, avevo trentadue anni: sempre di alta statura, sempre con fisico robusto allenato soprattutto nella caccia e nelle zuffe e nel dar retta agli altri, sempre sprovveduto e ora prossimo al precipizio di innamorarmi per sempre della bambina che avevo protetto come una sorella minore e che — nell’arco di una notte, pareva — era diventata una donna che ora riconoscevo come amica.

Dovrei anche dire che le altre cose di cui scrivo qui — gli eventi nello spazio della Pax, l’assassinio di Paul Duré, il salvataggio della creatura nota col nome di Rhadamanth Nemes, i pensieri di padre Federico de Soya — non sono congetture o ipotesi o invenzioni, sul genere dei romanzi del tempo di Martin Sileno. Conosco davvero queste cose, fino ai pensieri di padre de Soya e all’abbigliamento del consigliere Albedo quel giorno, non perché sia onnisciente, ma per eventi e rivelazioni successive che mi diedero accesso a una tale onniscienza.

Più avanti tutto avrà senso. Almeno, me lo auguro.

Mi scuso per questa impacciata nuova introduzione. L’originale del cìbrido che generò Aenea, un poeta di nome John Keats, scrisse nell’ultima lettera di addio agli amici: "Sono sempre stato goffo a fare l’inchino". Vale anche per me: sia in partenza, sia in saluto, sia, come forse è in questo caso, durante un improbabile incontro.

Perciò torno alle mie memorie e vi chiedo indulgenza se non hanno senso del tutto compiuto, nel mio primo tentativo di condividerle e di formularle.

Il vento ululò e soffiò sabbia per tre giorni e tre notti dopo il sedicesimo compleanno di Aenea. La ragazza fu assente per tutto quel tempo. Negli ultimi quattro anni mi ero abituato alle sue "pause", come le chiamava lei, e in genere non mi preoccupavo più come mi era accaduto all’inizio, quando spariva per giorni filati. Stavolta però ero più preoccupato del solito: la morte del Vecchio Architetto aveva lasciato ansiosi e inquieti i ventisette apprendisti e i più di sessanta collaboratori nel campo in pieno deserto che il Vecchio Architetto chiamava Taliesin West. La tempesta di sabbia accresceva l’ansia, come sempre fanno le tempeste. La maggior parte delle famiglie e del personale stava nelle vicinanze, in uno dei dormitori in muratura ricavata dai materiali del deserto che il signor Wright aveva fatto costruire a sud degli edifici principali e il comprensorio del campo in sé era simile a un fortino con mura e cortili e camminamenti coperti, buoni per passare tra gli edifici durante una tempesta di sabbia; ma ogni giorno senza luce del sole e senza Aenea mi rendeva sempre più nervoso.