«No» dissi. «Sono arrivato per teleporter. Da un altro pianeta.»
La dottoressa lanciò un’occhiata alla donna in azzurro, poi tornò a guardare me. «È arrivato da un altro pianeta? Vuol dire che… che il teleporter ha funzionato? Che l’ha teleportata qui?»
«Già.»
«Da dove?» domandò la dottoressa, controllandomi con la sinistra le pulsazioni.
«Vecchia Terra» risposi. «Sono venuto dalla Terra.»
Per un momento mi sentii galleggiare, gioiosamente libero dal dolore, mentre la dottoressa usciva nel corridoio a parlare con le due donne. Afferrai qualche brano.
«… mentalmente squilibrato, è chiaro» diceva la dottoressa. «Non è possibile che sia venuto da… illusioni della Vecchia Terra… forse uno degli spaziali, fatto di droga…»
«… lieta che rimanga…» disse la donna in azzurro. «Baderemo a lui finché…»
«Il prete e una delle guardie si tratterranno qui…» disse la dottoressa. «Quando lo skimmer ambulanza arriva a Keroa Tambat, ci fermiamo qui a prelevarlo mentre torniamo alla base… domani o dopodomani… non lo faccia andare via… probabilmente la polizia militare vorrà…»
Spinto a galla dalla crescente ondata di beatitudine per l’assenza di dolore, smisi di lottare contro la corrente e mi lasciai trasportare dal fiume nelle braccia di morfina.
Sognai una conversazione avuta con Aenea alcuni mesi prima. Era una fresca sera d’estate in pieno deserto e noi eravamo seduti nel vestibolo del suo riparo; bevevamo una tazza di tè e guardavamo spuntare le stelle. Parlavamo della Pax, ma per ogni lato negativo da me messo in evidenza, Aenea replicava mostrandomi un aspetto positivo. Alla fine mi arrabbiai.
"Senti" le dissi "parli della Pax come se non avesse tentato di catturarti e di ucciderti. Come se le navi della Pax non ci avessero dato la caccia per mezzo braccio della spirale e non ci avessero abbattuto su Vettore Rinascimento. Se lì non ci fosse stato il teleporter…"
"La Pax non ci ha dato la caccia, non ci ha sparato, non ha cercato di ucciderci" replicò piano Aenea. "L’hanno fatto alcuni elementi della Pax, ecco. Uomini e donne che eseguivano ordini giunti dal Vaticano o da altre parti."
"Be’" dissi, ancora esasperato e irritato "alcuni elementi della Pax bastano e avanzano per spararci e ucciderci…" Esitai un secondo. "Cosa significa, dal Vaticano o da altre parti? Pensi che ci siano altri che danno ordini? Diversi dal Vaticano, cioè?"
Aenea si strinse nelle spalle: un movimento aggraziato, ma fastidioso all’estremo. Una delle sue meno gentili peculiarità men che gentili da adolescente.
"Ci sono altri?" domandai, con un tono più brusco di quanto non fossi solito usare con la mia giovane amica.
"Ci sono sempre altri" disse placidamente Aenea. "Facevano bene a cercare di catturarci, Raul. O a cercare di uccidermi."
Nel sogno come nella realtà, posai la tazza di tè sulle fondamenta di pietra del vestibolo e fissai Aenea. "Dici che tu… e io… dovremmo essere catturati o uccisi… come animali? Che ne hanno il diritto?"
"No, certo" replicò Aenea, incrociando le braccia, mentre il vapore del tè si alzava dalle tazze nella fresca aria della sera. "Dico che la Pax ha ragione, dal suo punto di vista, a usare misure straordinarie nel tentativo di fermarmi."
Scossi la testa. "Non ti ho sentito dire niente di tanto sovversivo da indurii a mandare squadriglie di navi a darti la caccia, ragazzina. In realtà, la cosa più sovversiva ed eretica che ti ho sentito dire è che l’amore è una forza basilare dell’universo, al pari della gravità o l’elettromagnetismo. Ma sono solo…"
"Cazzate?" disse Aenea.
"Discorsi ambigui" precisai.
Aenea sorrise e si passò le dita fra i qprti capelli. "Raul, amico mio, il pericolo per loro non è nelle mie parole. È nelle mie azioni. In ciò che insegno, facendo… toccando."
La guardai. Avevo quasi dimenticato tutta la faccenda di "Colei che insegna", quella che suo zio, Martin Sileno, aveva inserito nel suo poema epico, i Canti. Aenea doveva essere il messia che il vecchio poeta, circa due secoli fa, aveva profetizzato nel suo lungo e confuso poema; così almeno mi aveva detto lui. Fino a quel momento avevo visto nella bambina ben poco che facesse pensare a qualità messianiche, a meno di contare il suo viaggio nel futuro per mezzo di una delle Tombe del Tempo, la Sfinge, e l’ossessione della Pax per la sua cattura o la sua uccisione… e la mia, visto che ero il suo tutore nel tempestoso viaggio fino alla Vecchia Terra.
"Non ti ho sentito insegnare granché di eretico o di pericoloso" dissi di nuovo, in tono quasi imbronciato. "E neppure ti ho visto fare cose che siano una minaccia per la Pax." Con un gesto inclusi la sera, il deserto, i lontani edifici illuminati della Compagnia Taliesin; e ora, nel mio sogno sotto ultramorfina, che era più ricordo che sogno, vidi me stesso fare quel gesto, come se mi trovassi a guardare dal buio fuori del riparo illuminato.
Aenea scosse la testa e sorseggiò il tè. "Tu non capisci, Raul, ma loro capiscono! Già parlano di me come di un virus. Hanno ragione: è esattamente ciò che potrei essere per la Chiesa. Un virus, come l’antico ceppo HIV sulla Vecchia Terra o come la Morte Rossa che imperversò nei pianeti della Periferia dopo la Caduta. Un virus che invade ogni cellula dell’organismo e ne riprogramma il DNA… o almeno infetta un sufficiente numero di cellule, per cui l’organismo crolla, viene meno… muore."
Nel mio sogno, piombai sul riparo di tela e di pietra di Aenea, come un falco nella notte, roteando in alto fra le stelle aliene sopra la Vecchia Terra e vedendo noi — la ragazzina e l’uomo — seduti alla luce della lanterna a cherosene del vestibolo, anime perdute in un mondo perduto. Proprio ciò che eravamo.
Per i due giorni seguenti andai alla deriva, dentro e fuori il dolore e la coscienza, come una barchetta che, staccatasi dall’ormeggio, passi nell’oceano da raffiche di pioggia a chiazze di sole. Bevvi grandi quantità di acqua che le donne in azzurro mi portavano in bicchieri di vetro. Zoppicai fino al gabinetto e urinai in un filtro, cercando il calcolo che mi causava sofferenza. Niente calcolo. Ogni volta tornavo zoppicando al letto e aspettavo che il dolore ricominciasse. Non mancava mai di ricominciare. Perfino a quel tempo mi rendevo conto che la mia situazione non era l’essenza di eroiche avventure.
Prima che la dottoressa riprendesse il viaggio a valle del fiume fino al luogo del disastro dello skimmer, mi fu fatto capire che la guardia della Pax e il prete avevano un trasmettitore e che avrebbero avvertito la base, se avessi provocato guai di qualsiasi genere. La dottoressa Molina mi spiegò chiaramente che me la sarei vista davvero brutta, se il comandante della Flotta della Pax avesse dovuto togliere dalle manovre uno skimmer solo per prelevare prima del tempo un prigioniero. Intanto, mi disse, dovevo continuare a bere grandi quantità di acqua e a urinare ogni volta che mi era possibile. Se non avessi espulso il calcolo, mi avrebbe portato nell’infermeria della prigione, alla base, dove avrebbero frantumato con gli ultrasuoni la concrezione calcarea. Lasciò alla donna in azzurro altre quattro fiale di ultramorfina e se ne andò senza salutare. La guardia, un lusiano di mezza età, il doppio del mio peso, con una pistola a fléchettes nella fondina e un persuasore neurale nelle cintura, venne a dare un’occhiata nella stanza, mi lanciò uno sguardo di fuoco, tornò fuori e prese posizione davanti alla porta di casa.
Smetterò di riferirmi alla padrona di casa chiamandola "la donna in azzurro". Durante le prime ore di sofferenza, per me lei era stata solo quello, oltre che la mia salvatrice, naturalmente, ma nel pomeriggio del primo giorno in casa sua venni a sapere che si chiamava Dem Ria; che il suo primo partner matrimoniale era l’altra donna, Dem Loa; che il terzo membro del loro matrimonio a tre era l’uomo molto più giovane, Alem Mikail Dem Alem; che la ragazzina era Ces Ambre, figlia di Alem, nata da una precedente tri-unione; che il bambino pallido e senza capelli, di circa otto anni standard all’apparenza, si chiamava Bin Ria Dem Loa Alem, era figlio dell’attuale tri-unione (ma non scoprii mai quale delle due donne fosse la madre biologica) e stava morendo di cancro.