Ma si trattava di scendere a terra o morire di sete. Appena passata una delle numerose chiuse che consentivano il self-service, mi accostai a una banchina, vi ormeggiai il kayak, mentre dietro di me una grossa chiatta usciva dalla chiusa, e mi avviai a una struttura circolare di legno e mattoni che mi auguravo fosse anche un pozzo artesiano. Avevo visto alcune donne vestite di giallo zafferano portare via da lì quelle che parevano giare d’acqua, quindi mi sentivo abbastanza sicuro nella mia ipotesi. Viceversa, non avevo molta fiducia nella possibilità di attingere acqua senza violare qualche legge, codice, regola di casta, comandamento religioso o usanza locale. Nei viottoli e nelle alzaie non avevo visto traccia della Pax, né il nero dei preti né il rosso e nero dell’uniforme standard della polizia, ma non potevo farci conto. Perfino nella Periferia (proprio lì, secondo il comlog, si trovava Vitus-Gray-Balianus B) erano pochissimi i pianeti dove la Pax non avesse una certa ben definita presenza. Senza dare nell’occhio, avevo preso dallo zaino il fodero col coltello da caccia e l’avevo infilato nella tasca posteriore, sotto il giubbotto; il mio solo piano, se si fosse riunita una folla minacciosa, era quello di aprirmi la strada fino al kayak. Se fosse giunta la polizia della Pax, con storditori o pistole a fléchettes, il mio viaggio sarebbe terminato lì.
Ancora non sapevo che presto proprio lì sarebbe terminato (almeno per un poco) per una ragione completamente diversa. Ma di questo non ebbi alcun preavviso, a parte il mal di schiena che già mi tormentava prima ancora di lasciare Lusus, mentre mi avvicinavo con diffidenza al pozzo, se pozzo era.
Era un pozzo.
La mia alta statura e lo smorto colore dei miei vestiti non causarono reazioni. Nessuno, neppure i bambini vestiti di rosso brillante e di vivido azzurro, che interruppero i giochi per darmi un’occhiata e subito distolsero lo sguardo, interferì né parve notare l’evidente presenza di un forestiero. Mentre bevevo a sazietà e riempivo le due bottiglie, ebbi l’impressione, non so da che cosa originata, che gli abitanti di Vitus-Gray-Balianus B, o almeno di quel villaggio lungo il tratto da tempo abbandonato del fiume Teti, fossero semplicemente troppo educati per fissarmi o per interessarsi dei miei affari. Mentre tappavo la seconda bottiglia e mi giravo per tornare al kayak, mi convinsi che perfino un mutante alieno a tre teste oppure (per fare un esempio più reale, sempre nel regno del bizzarro) lo stesso Shrike avrebbe potuto bere da quel pozzo artesiano, in quel piacevole pomeriggio nel deserto, senza essere avvicinato né interrogato dagli abitanti locali.
Percorsi tre passi sul viottolo polveroso, fui colpito dal dolore. Mi piegai in due, ansimando per la sofferenza, incapace di respirare; caddi sul ginocchio, poi sul fianco. Mi rannicchiai su me stesso, in preda al dolore. Mi sarei messo a urlare, se la terribile sofferenza mi avesse lasciato il fiato e l’energia necessari. Invece no. Boccheggiando come un pesce gettato su quella riva polverosa, mi raggomitolai in posizione fetale e fui travolto da ondate di sofferenza.
Dovrei dire a questo punto che non sono del tutto estraneo al dolore e al disagio. Quando ero nella Guardia nazionale, uno studio dell’esercito di Hyperion mostrava che per la maggior parte i coscritti inviati a sud a combattere i ribelli dell’Artiglio di ghiaccio avevano poco stomaco per il dolore. Gli abitanti delle città del nord-Aquila e delle più raffinate cittadine delle Nove Code avevano sperimentato di rado, se pure l’avevano sperimentato, un dolore che non potessero eliminare ingoiando una pillola o programmando un robochirurgo o recandosi nel più vicino medibox.
In quanto pastore e ragazzo di campagna, ero un po’ più abituato a sopportare il dolore: tagli accidentali con il coltello, un piede rotto perché calpestato da un ibrido da soma, lividi e contusioni per cadute nelle regioni rocciose, una sindrome commotiva per un incontro di lotta durante il ritrovo annuale dei carrozzoni, pustole da sfregamento sulla sella, perfino labbra gonfie e occhi neri per qualche rissa intorno ai fuochi di bivacco durante l’Assemblea degli Uomini. E nell’Artiglio di ghiaccio ero stato ferito tre volte — due ferite di shrapnel di mine che avevano ucciso miei commilitoni e una ferita di laser da un cecchino a lungo raggio — e l’ultima era stata abbastanza grave da far venire un prete che quasi pretese accettassi il crucimorfo prima che fosse troppo tardi.
Ma non avevo mai provato un dolore come quello.
Gemendo, ansimando, mentre i bene educati abitanti si ritraevano da quella apparizione caduta a terra ed erano costretti a notare la presenza di uno straniero, alzai il polso e chiesi al comlog di dirmi che cosa mi accadeva. Il comlog non rispose. Fra ondate di dolore insopportabile, ripetei la richiesta. Nessuna risposta. Allora ricordai che avevo messo il maledetto aggeggio nel modo "bravo bambino" e annullai il comando.
"Posso attivare la funzione biosensoria latente, signor Endymion?" disse quell’idiota di IA.
Non sapevo che l’aggeggio avesse una funzione biosensoria, latente o attiva. Risposi con uno sgarbato borbottio d’assenso e mi piegai in due, in posizione fetale. Mi sentivo come se qualcuno mi avesse pugnalato al centro della schiena e rivoltasse nella ferita una lama uncinata. Il dolore mi percorse come corrente in un fil di ferro arroventato. Vomitai nella polvere. Una donna molto bella, in abito di un bianco abbagliante, arretrò ancora di un passo e alzò il sandalo bianco.
«Cos’è?» ansimai di nuovo, in uno dei brevissimi intervalli tra una fitta e l’altra. «Cosa mi succede?» Mi tastai la schiena, cercando sangue o una ferita. Mi aspettavo una freccia o una lancia, ma non trovai niente.
"Sta per entrare in stato di shock, signor Endymion" disse quel lobotomizzato pezzetto di IA della nave del console. "Pressione sanguigna, resistenza della pelle, battito cardiaco e conteggio di atropina confermano questa diagnosi."
«Perché?» Trascinai la parola in un lungo gemito, mentre il dolore mi rotolava dalla schiena in tutto il corpo. Vomitai di nuovo. Non avevo niente nello stomaco, ma continuai a vomitare. Gli abitanti del villaggio, nei loro vestiti dai vivaci colori, si tennero a distanza: non formarono una folla di curiosi, non si mostrarono tanto maleducati da fissarmi e mormorare, ma evidentemente esitarono a proseguire per i fatti loro.
«Cosa non va?» ansimai di nuovo, cercando di bisbigliare. «Cosa potrebbe provocarmi questo dolore?»
"Colpo d’arma da fuoco" rispose la vocina metallica. "Pugnalata. Lancia, coltello, freccia, dardo. Colpo di arma a energia. Laser, stiletto omega, pulsolama. Colpo concentrato di fléchettes. Forse un ago lungo e sottile che trapassi rene superiore, fegato e milza."
Torcendomi dal male, mi tastai di nuovo la schiena, tirai via il fodero col coltello e lo gettai lontano. Al tatto, giubbotto e camicia non parevano bruciati o lacerati. Nessun oggetto acuminato mi sporgeva dalla carne.
Il dolore mi bruciò di nuovo per tutto il corpo e gemetti a voce alta. Non l’avevo fatto quando il cecchino mi aveva colpito sull’Artiglio di ghiaccio e neppure quando l’ibrido di zio Vanya mi aveva rotto il piede.
Trovai difficile formare pensieri coerenti, ma la mia mente andava in questa direzione: "I nativi di Vitus-Gray-Balianus B… chissà come… poteri mentali… veleno… l’acqua… raggi invisibili… punizione… per…".
Abbandonai il tentativo di formare un pensiero coerente e gemetti di nuovo. Una persona in gonna o toga azzurro vivo e sandali pulitissimi, unghie dei piedi smaltate di blu, mi si avvicinò.
«Mi scusi, signore» disse una voce nell’inglese della vecchia Rete, distorto da una curiosa cadenza. «Si trova forse in difficoltà?»
«Aaarrgghhhggghuhh» risposi, tra altri conati di vomito.
«Posso allora esserle di aiuto?» domandò la stessa voce da sopra la toga azzurra.