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«Naturalmente» rispose A. Bettik e non aggiunse spiegazioni.

«Come hanno fatto, Rachel e la Dorje Phamo e gli altri, a salire sulla nave-albero?» domandai. «La Sequoia sempervirens ha fatto tappa sul mondo di Barnard e su Vitus-Gray-Balianus B e gli altri sistemi per raccoglierli?»

«Per quanto mi risulta, signor Endymion, gli Ouster hanno viaggiato sulla nave-albero e sono arrivati da ciò che resta della biosfera Albero Stella da noi visitata. Gli altri, come mi è dato di capire dalle sempre più frustrate trasmissioni radio del signor Rosteen al signor Sileno, si sono teleportati sulla nave, proprio come lei si è teleportato qui da noi.»

Mi drizzai a sedere. Era una novità sorprendente. Per non so quale ragione, avevo ritenuto di essere l’unico tanto intelligente, tanto benedetto o tanto quel che vi pare ad avere imparato il trucco per teleportarsi. Ora scoprivo che Rachel e Theo e l’anziana badessa avevano fatto come me, e il giovane Dalai Lama… Be’, un Dalai Lama, non c’era da stupirsi, e Rachel e Theo erano stati i primi discepoli di Aenea, ma George e Jigme? Mi sentii un po’ ridimensionato, lo ammetto, ma anche entusiasta per la notizia. Migliaia di altri, forse per primi quelli che Aenea aveva conosciuto e toccato e ammaestrato di persona, erano sul punto di compiere il primo passo. E poi… La mente mi vacillò al pensiero di tutti quei miliardi di persone che viaggiavano liberamente dovunque desiderassero.

Mentre il cielo a est dei picchi si schiariva rapidamente, atterrammo nella città abbandonata. Saltai giù dallo skimmer, tenendo contro il fianco il grafer, e per l’impazienza di vedere Martin Sileno salii di corsa i gradini della torre, lasciando indietro l’androide e il prete. Il vecchio poeta sarà felice di vedermi, mi dissi, e mi sarà grato per l’impegno nel soddisfare tutte le sue impossibili richieste — avevo salvato Aenea dalla prima imboscata della Pax nella valle delle Tombe del Tempo, poi collaborato a distruggere la Pax, a rovesciare la corrotta Chiesa, a fermare lo Shrike in modo che non facesse male a Aenea o non assalisse la specie umana — proprio come lui aveva chiesto, quell’ultima sera di sbronza insieme, più di dieci anni standard fa. Doveva essere di sicuro felice e riconoscente.

«Ci hai messo un fottuto mucchio di tempo per portare qui quel tuo culo scansafatiche» disse la mummia avvolta nella rete di tubi e cavetti di supporto vita. «Credevo di dovere venire a prenderti e trascinarti qui da dove te ne stavi a poltrire come una fottuta checca col sussidio del governo del XXI secolo.»

L’emaciata creatura nel letto a cuscino d’aria sospeso al centro di tutte quelle apparecchiature, monitor, respiratori e infermiere androidi non aveva l’aspetto dell’anziano signore ringiovanito dal trattamento Poulsen che avevo salutato tempo fa, quasi dieci dei miei anni e solo due di veglia dei suoi. Quello era un cadavere che avevano trascurato di seppellire. Anche la voce era una ricostruzione elettronica dei suoi ansiti e rantoli subvocalizzati.

«Hai finito di tenere spalancata quella fottuta bocca o vuoi comprare un altro biglietto per il baraccone dei fenomeni?» disse il sintetizzatore vocale posto sopra la testa della mummia.

«Mi scusi» borbottai, sentendomi come un bambino screanzato sorpreso a fissare spudoratamente.

«Con le scuse mi ci pulisco il culo» disse il vecchio poeta. «Ti decidi a fare rapporto o te ne stai solo lì come il fottuto bifolco che sei?»

«Rapporto?» dissi, allargando le mani e posando su un tavolino il grafer. «Credo che conosca già le cose essenziali.»

«Essenziali?» ruggì il sintetizzatore, interpretando il torrente di colpi di tosse e di rantoli. «Che cazzo ne sai tu delle cose essenziali, bamboccio?» Le infermiere androidi si erano frettolosamente allontanate.

Provai uno scatto d’ira. Forse l’età aveva imputridito il cervello del vecchio bastardo, non solo le sue buone maniere, se mai le aveva avute. Dopo un minuto di silenzio rotto solo dal raspio dei mantici meccanici sotto il letto sospeso, mantici che pompavano l’aria dentro e fuori degli inutili polmoni del moribondo, dissi: «Rapporto. D’accordo. Le sue richieste sono state in gran parte soddisfatte, signor Sileno. Aenea ha messo fine al dominio della Pax e della Chiesa. Lo Shrike pare sia scomparso. L’universo umano è cambiato per sempre».

«L’universo umano è cambiato per sempre» mi prese in giro il vecchio poeta, usando il sintetizzatore in un tentativo di falsetto sarcastico. «Cazzo, ho forse chiesto a te, o alla ragazza, di cambiare per sempre il fottuto universo, merdaccia boia?»

Ripensai alla nostra conversazione, proprio lì, una decina di anni prima. «No» ammisi infine.

«Ah, ci siamo» ringhiò il vecchio poeta. «Le tue cellule cerebrali ricominciano a dare segni di vita. Cristo, ragazzo, penso che quella scatola per figliate di gatti di Schrödinger ti abbia fatto diventare anche più stupido di prima.»

Rimasi in silenzio ad aspettare. Se avessi aspettato abbastanza, forse il vecchio poeta sarebbe morto senza tante storie.

«Cosa ti ho chiesto di fare, prima della tua partenza, eh, ragazzo prodigio?» Il tono era quello di un maestro infuriato con l’alunno.

Cercai di ricordare altri particolari che non fossero la distruzione del ferreo dominio della Pax e il rovesciamento di una Chiesa che dominava centinaia di pianeti. Lo Shrike… be’, non si riferiva a quello. Alla fine, toccando il Vuoto che lega anziché affidarmi alla mia fallibile memoria, ricuperai le sue ultime parole, prima della mia partenza sul tappeto Hawking incontro alla bambina.

"Vai pure" aveva detto il vecchio poeta. "Porta a Aenea il mio amore. Dille che zio Martin aspetta di vedere la Vecchia Terra, prima di morire. Dille che il vecchiaccio è ansioso di sentirle spiegare il senso di ogni moto, forma, suono." L’essenza delle cose.

«Oh» dissi. «Mi spiace che Aenea non sia qui per parlare con lei.»

«Spiace anche a me, ragazzo» mormorò il vecchio, con la propria voce. «Spiace anche a me. E lascia perdere quel thermos di ceneri nella borsa del prete. Non mi riferivo a quelle, quando ho detto di voler rivedere mia nipote, prima di morire.»

Potei solo muovere la testa in un cenno di assenso: sentivo il dolore nella gola e nel petto.

«E il resto?» riprese il vecchio poeta. «Ti decidi a portare a termine la mia ultima richiesta o ti limiti a lasciarmi morire, mentre te ne stai lì in piedi, col tuo grosso pollice di discepolo su per il tuo stupido culo?»

«Ultima richiesta?» ripetei. In presenza di Martin Sileno, il mio quoziente d’intelligenza pareva scendere di colpo di cinquanta punti.

La voce sintetizzata sospirò. «Dammi quel tuo stilo grafer, se vuoi che te lo metta a grosse lettere in neretto, ragazzo. Prima di schiattare voglio vedere la Vecchia Terra. Voglio tornarci. Voglio tornare a casa.»

Alla fine decidemmo di non spostarlo dalla torre. I medici androidi conferirono con i medici Ouster che finalmente avevano avuto il permesso di atterrare e questi conferirono con il robochirurgo a bordo della nave del console (parcheggiata proprio dietro la torre, esattamente dove A. Bettik l’aveva fatta scendere circa due mesi prima, dopo avere pagato il debito temporale per la traslazione dal sistema di Pacem) che conferì elettronicamente con i monitor medici che circondavano il poeta, come faceva di continuo, e il verdetto rimase sempre uguale. Spostandolo dalla torre e sottoponendolo anche a un minimo cambiamento di gravità o di pressione per trasportarlo nella nave del console o nella nave-albero, lo avremmo quasi sicuramente ucciso.

Così portammo via l’intera torre e, con essa, una buona fetta di Endymion.

Ket Rosteen e gli Ouster si occuparono dei particolari, portando giù dalla gigantesca nave-albero una decina di erg. Calcolai in seguito che in quella splendida alba di Hyperion circa dieci ettari si alzarono in aria, compresi la torre, la nave del console, i pulsanti cubi di Moebius che avevano trasportato gli erg, lo skimmer, la cucina e la lavanderia annessi alla torre, parte del vecchio istituto di chimica nel campus di Endymion, diversi edifici di pietra, la metà esatta del ponte sul fiume Punta d’Ala e alcuni milioni di tonnellate di roccia e di sottosuolo. Nemmeno ci accorgemmo del decollo: gli erg e i loro aiutanti Ouster e templari manovrarono con tale perfezione i campi di contenimento e di sollevamento che non avremmo notato la minima differenza, se sopra la nostra testa il cielo del mattino non fosse divenuto un immobile campo di stelle nell’apertura circolare della torre e gli ologrammi nella sala di cura non avessero mostrato i nostri progressi. In quella sala, con le stelle che ardevano sopra di noi, A. Bettik, padre de Soya, alcune infermiere androidi e io guardammo gli ologrammi in diretta, mentre io tenevo la mano del vecchio poeta.