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Ma non c’era gas venefico nell’aria, solo la crescente forza della mia certezza e l’impulso anche più forte ad agire in qualche modo.

Nella cosmica partita a scacchi che Aenea e gli altri giocavano ormai da tre secoli standard, c’era un altro partecipante: il quasi mitico osservatore delle specie aliene senzienti, che Aenea aveva menzionato brevemente in diversi contesti. I Leoni e Tigri e Orsi, gli esseri così potenti da prelevare la Vecchia Terra e trasportarla nella Piccola Nube di Magellano, anziché guardarne la distruzione, avevano (secondo Aenea) inviato tra noi negli ultimi secoli uno o più osservatori, entità che (secondo la mia interpretazione delle parole di Aenea) avevano assunto forma umana e si erano aggirate fra noi per tutto il tempo. Sarebbe stato relativamente facile, nell’era della Pax, con la diffusa immortalità virtuale garantita dal crucimorfo. E c’erano di sicuro altri che, come il vecchissimo poeta Martin Sileno, erano rimasti in vita mediante una combinazione di scienza medica della Rete dei Mondi, di trattamento Poulsen e di pura ostinazione.

Martin Sileno era vecchio, fuor di dubbio, forse il più vecchio essere umano della galassia, ma non era lui l’osservatore, altrettanto fuor di dubbio. L’autore dei Canti era troppo dogmatico, troppo attivo, troppo visibile al grande pubblico, troppo disgustoso e in genere troppo maledettamente intrattabile per essere un freddo osservatore in rappresentanza di specie aliene tanto potenti da distruggerci in un batter di ciglia. Almeno, me lo auguravo.

Ma da qualche parte, probabilmente in un luogo che non avevo mai visitato e che non sarei riuscito a immaginare, l’osservatore era rimasto in attesa e aveva investigato sotto spoglie umane. Pareva ragionevole che Aenea fosse stata costretta, sia dalla profezia sia dalla necessità di una evoluzione umana priva di intralci di cui aveva parlato e in cui aveva creduto, a teleportarsi lontano dalla sua odissea in quel remoto pianeta dove l’osservatore aspettava, incontrarlo, accoppiarsi con lui e mettere alla luce quel figlio. Così avrebbe riconciliato il Nucleo, la specie umana e i remoti Altri.

L’idea era sconvolgente, mi turbava moltissimo, ma mi elettrizzava come niente aveva più fatto, dalla morte di Aenea.

Conoscevo Aenea. Suo figlio sarebbe stato un bambino umano, pieno di vita e di allegria e di amore per qualsiasi cosa, dalla natura ai vecchi olodrammi. Non avevo mai capito come Aenea avesse potuto abbandonare il bambino, ma ora mi resi conto che non aveva avuto scelta. Lei conosceva il terribile destino che l’aspettava nella cella sotterranea di Castel Sant’Angelo. Sapeva che sarebbe morta sotto tortura, tra le fiamme, circondata da nemici non umani e da mostruosi cloni Nemes. L’aveva sempre saputo, fin da prima della nascita.

Il pensiero mi fece tremare le ginocchia. Come aveva potuto, la mia cara amica, ridere così spesso con me, affrontare con tanto ottimismo e tanta felicità il nuovo giorno, celebrare così completamente la vita, sapendo che ogni ora trascorsa la portava più vicino a una morte così terribile? Scossi la testa all’idea della forza di volontà che l’aveva sostenuta. Io non avevo quella forza, lo sapevo benissimo. Aenea l’aveva avuta.

Sapendo quando e come quella terribile fine avrebbe avuto luogo, non avrebbe mai potuto tenere con sé il figlio. Perciò era presumibile che ora il bambino venisse allevato dal padre. Dall’Altro in forma umana. Dall’osservatore.

Questa idea era più sconvolgente delle precedenti. Fui allora colpito da un’altra certezza: Aenea avrebbe voluto che io avessi un ruolo nella vita di suo figlio, se l’avesse ritenuto possibile. Era ragionevole ipotizzare che le sue fuggevoli visioni di possibili futuri terminassero tutte con la sua morte. Forse Aenea ignorava che io non sarei stato giustiziato con lei. Ma no, mi aveva chiesto di spargere le sue ceneri sulla Vecchia Terra, perciò sapeva che le sarei sopravvissuto. Forse l’aveva ritenuta una richiesta troppo grande, che io trovassi suo figlio — bambino o bambina — e lo aiutassi in ogni modo possibile mentre cresceva, che collaborassi a proteggerlo in un universo tutto spigoli taglienti.

Piangevo, mi accorsi, non piano, ma con grandi, aspri singhiozzi. Era la prima volta che piangevo a questo modo, dalla morte di Aenea, e — cosa strana — non era il dolore per la sua morte, ma il pensiero di questa seconda possibilità, di tenere per mano un bambino come un tempo avevo tenuto per mano la piccola Aenea, di proteggere quel figlio della mia amata come avevo tentato di proteggere la mia amata.

E fallito! Ad accusarmi ero io stesso.

Sì, alla fine non ero riuscito a proteggere Aenea, ma lei sapeva che avrei fallito, che lei avrebbe fallito la missione di abbattere la Pax. Aveva amato me e aveva amato la vita, pur sapendo che avrebbe fallito.

Non c’era motivo perché fallissi di nuovo, con quest’altro bambino. Forse l’osservatore avrebbe accettato con piacere il mio aiuto, la mia partecipazione all’esperienza umana di quel bambino quasi certamente più che umano. Potevo affermare con sicurezza che nessuno aveva conosciuto Aenea meglio di me. Questo sarebbe stato importante per la formazione del bambino, del nuovo messia. Avrei portato con me la narrazione ora inutilizzata nel grafer, ne avrei condiviso frammenti e parti, col bambino o la bambina che cresceva, gliel’avrei trasmessa per intero un giorno o l’altro.

Presi lavagnetta e grafer, andai avanti e indietro per la cella. C’era il piccolo particolare della mia inevitabile esecuzione. Nessuno sarebbe venuto a salvarmi. Il guscio esplosivo dell’ovoide l’aveva deciso; e se ci fosse stato un modo di aggirare il problema, ormai qualcuno si sarebbe già presentato. Solo grazie al più inverosimile gioco delle probabilità e alla fortuna ero sopravvissuto così a lungo, appeso al filo di un reiterato lancio di dadi della morte, con il rivelatore pronto a fiutare l’emissione di particelle. Per tutto questo tempo avevo battuto le leggi di probabilità quantiche, ma la fortuna non poteva durare.

Smisi di andare avanti e indietro.

L’insegnamento di Aenea sulla nuova relazione tra la nostra specie e il Vuoto che lega comprendeva quattro passi. Ancora prima di finire in questa cella, avevo sperimentato, se non padroneggiato, l’apprendimento del linguaggio dei morti e dei vivi. Nella stesura del mio racconto avevo mostrato di poter accedere al Vuoto almeno per conoscere vecchi ricordi di persone ancora viventi, anche se il guscio della cella interferiva in qualche modo con la mia capacità di percepire che cosa accadeva adesso ad amici come padre de Soya o Rachel o Lhomo o Martin Sileno.

Ma forse non c’era nessuna interferenza. Forse nel subcosciente mi rifiutavo di cercare contatto con il mondo dei vivi, almeno per cose che non riguardassero ricordi di Aenea, poiché sapevo di abitare adesso il mondo dei morti.

Non più. Volevo uscire di qui.

Nel suo insegnamento Aenea aveva citato altri due passi, ma non li aveva mai spiegati pienamente: udire la musica delle sfere e muovere il primo passo.

Ora capivo tutt’e due i concetti. Se non avessi visto Aenea teleportarsi e se non avessi provato quel grande impeto di comprensione gestaltica provocato dalla terribile partecipazione alla sua morte, non avrei mai capito. Ma ora capivo.

Avevo ritenuto che udire la musica delle sfere fosse una sorta di trucco fra paranormale e radiotelescopico, udire realmente gli scoppiettii e i sibili delle stelle, come da undici secoli consentivano i radiotelescopi. Ma Aenea non si riferiva affatto a questo. Lei non ascoltava le stelle, ma la risonanza di quelle persone, umane e non umane, che risiedevano fra quelle stelle e intorno a quelle stelle. Aveva usato il Vuoto come una sorta di faro direzionale per teleportarsi.

Molti dei suoi trasferimenti non avevano avuto senso per me. I teleporter controllati dal Nucleo erano rozzi fori praticati nel Vuoto, perciò nello spaziotempo, tenuti spalancati dai portali, simili a rozze pinze che tenessero divaricati i margini di una ferita, come nei vecchi tempi dei bisturi e della chirurgia invasiva. Il modo in cui Aenea si teleportava, capii, era un meccanismo infinitamente più elegante.