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Con uguale rapidità John rispose alla mossa e alla domanda; indicò di spostare avanti la torre e disse: «Riporterei la nave su Hyperion. La programmerei per tornare da Brawne, se tutto va bene. O forse da Martin Sileno, se il vecchio è ancora vivo e continua a lavorare ai Canti».

«La programmeresti?» disse il console, guardando la scacchiera e corrugando la fronte. «Vuoi dire che lasceresti la IA della nave?» Spostò l’alfiere di una casella sull’altra diagonale.

«Sì» disse John, indicando di far avanzare di nuovo il pedone. «Lo farei comunque, nei prossimi giorni.»

Con fronte ancora più corrugata, il console guardò la scacchiera, poi l’ologramma di fronte a sé, poi di nuovo la scacchiera. «Dove andrai?» domandò, muovendo la regina a protezione del re.

«Tornerò nel Nucleo» disse John. Mosse di due caselle la torre.

«Per affrontare di nuovo il tuo creatore?» domandò il console, rinnovando l’attacco d’alfiere.

John scosse la testa. Si teneva molto impettito e aveva il vezzo di togliersi dalla fronte i ricci, con un elegante movimento all’indietro della testa. «No» rispose piano. «Per scatenare il pandemonio fra le entità del Nucleo. Per accelerare le loro interminabili guerre civili e rivalità intestine. Per essere ciò che il mio stampo era stato per la comunità dei poeti… un fastidioso importuno.» Indicò dove voleva muovere il cavallo che gli rimaneva.

Il console studiò la mossa, non la ritenne minacciosa, mosse ancora l’alfiere. «Per quale ragione?» domandò infine.

John sorrise e indicò la casella dove sarebbe dovuta andare la torre. «Mia figlia avrà bisogno d’aiuto, fra qualche anno» disse. Ridacchiò. «Be’, fra duecentosettanta e passa anni, per la precisione. Matto.»

«Cosa?» disse il console, sorpreso. Studiò la scacchiera. «Non è…»

John rimase in silenzio.

«Merda!» sbuffò alla fine il console dell’Egemonia. Rovesciò il re. «Per tutti gli strafottuti diavoli dell’inferno!»

«Sì» disse John, porgendogli la mano. «Grazie ancora per la piacevole partita. E mi auguro che la caccia di domani ti risulti più gradita.»

«Merda» ripeté il console. Senza pensarci, tentò di stringere la mano dell’ologramma. Per la centesima volta le sue dita attraversarono la mano dell’altro. «Merda» disse ancora il console.

Quella notte, nella scatola di Schrödinger, mi svegliai di colpo. Due parole mi echeggiavano nella mente: "Il bambino"!

Sapere che Aenea era già sposata, prima che la nostra amicizia si trasformasse in amore completo e totale, e che aveva messo al mondo un figlio mi aveva bruciato l’anima e le viscere come un doloroso tizzone ardente; ma a parte la mia quasi ossessiva curiosità su chi e su perché (curiosità non soddisfatta dalle domande rivolte ad A. Bettik, a Rachel e agli altri che l’avevano vista andare via, durante la loro odissea, ma ignoravano dove o con chi fosse andata) non avevo mai considerato che in realtà quel bambino viveva in qualche parte del mio stesso universo. Il figlio suo! Il pensiero mi faceva venire voglia di piangere, per varie ragioni.

"Il bambino non è dove posso trovarlo adesso" aveva detto Aenea.

Dove si trovava, adesso, quel bambino? Quanti anni aveva? Mi sedetti sul lettino e cominciai a riflettere. Quando era morta… Correzione: quando era stata brutalmente assassinata dal Nucleo e dai suoi burattini della Pax, Aenea aveva ventitré anni standard. Appena compiuto il ventesimo compleanno, era scomparsa per un anno, undici mesi, sette giorni e sei ore. Perciò il bambino aveva circa tre anni standard più il tempo che io avevo trascorso nella scatola di Schrödinger… otto mesi? dieci? Non lo sapevo, semplicemente. Ma se era ancora vivo, il bambino, o la bambina… Dio santo, non avevo mai domandato a Aenea se era un figlio o una figlia e lei, la sola volta che ne avevamo parlato, non l’aveva precisato. E io, sofferente per la ferita morale e per la fanciullesca convinzione d’avere patito una grande ingiustizia, non avevo pensato di domandarglielo. Ero stato proprio un idiota! Il bambino, il figlio o la figlia di Aenea, adesso era sui quattro anni standard. Camminava già… certamente. Parlava. Oddio, il figlio di Aenea era ormai un razionale essere umano, che parlava, che faceva domande, un mucchio di domande, se le mie poche esperienze con i bambini erano indicative, che imparava a fare passeggiate e a pescare e ad amare la natura…

Non avevo mai domandato a Aenea il nome di suo figlio. Dolorosamente consapevole di questo fatto, mi sentii bruciare gli occhi e chiudere la gola. Aenea era sempre stata reticente a parlare di quel periodo della sua vita e io non avevo fatto domande nelle settimane trascorse insieme dopo di allora: non volevo turbarla, mi dicevo, con domande o indagini che avrebbero indotto in lei il senso di colpa e in me l’istinto omicida. Ma quando mi aveva brevemente parlato del matrimonio e del figlio, Aenea non aveva mostrato alcun senso di colpa. Per essere onesti, era una delle ragioni per cui, quando l’avevo saputo, mi ero sentito così infuriato e impotente. Eppure, è incredibile, quel fatto non ci aveva impedito di essere amanti. Come diceva il messaggio trovato nel monitor del grafer mesi fa, il messaggio che ero sicuro provenisse da Aenea? "Amanti di cui canterebbero i poeti." Ecco. Il sapere del suo breve matrimonio e del figlio non ci aveva impedito di sentirci come amanti che non avessero mai provato quel sentimento per altri.

E forse lei non l’aveva provato, mi resi conto. Avevo sempre ritenuto che il suo matrimonio fosse stato una di quelle passioni improvvise, quasi un impulso; ora invece lo consideravo in un altro modo. Ma chi era il padre? Nel suo messaggio Aenea diceva di amarmi a ritroso e in avanti nel tempo, che è precisamente ciò che provavo io nei suoi confronti, come se l’avessi sempre amata, come se avessi aspettato l’intera vita per scoprire la realtà di quell’amore. E se il matrimonio di Aenea non fosse stato di passione o d’impulso ma… di convenienza? No, no, non è la parola giusta. Di necessità?

Le profezie dei templari, degli Ouster, del culto Shrike della Chiesa della redenzione finale e di altri, dicevano che Brawne Lamia avrebbe generato una figlia, Colei che insegna, Aenea, come risultò. Secondo i Canti del vecchio poeta, il giorno in cui il secondo cìbrido John Keats morì di morte fisica e Brawne Lamia si aprì combattendo la strada per rifugiarsi nel tempio dello Shrike su Lusus, i fedeli di quel culto avevano cantato: "Benedetta sia la Madre della Nostra Salvezza, benedetto sia lo Strumento della Nostra Redenzione", riferendosi proprio a Aenea.

E se Aenea fosse stata destinata ad avere un figlio per continuare la stirpe dei messia? In nessuna profezia, per quanto ne sapevo, si parlava di figli, ma nei mesi in cui avevo scritto della vita di Aenea, avevo scoperto una cosa incontrovertibile: Raul Endymion quasi sempre l’ultimo a capire. Forse c’era un’infinità di varianti sulla profezia dell’avvento di chissà quanti Colui o Colei che insegna. O forse quel figlio avrebbe avuto poteri e intuizioni del tutto diverse, forse quello che l’universo e la specie umana aspettavano da tempo.

Ovviamente non sarei stato io il padre di un tale secondo messia. L’unione del secondo cìbrido John Keats e di Brawne Lamia era stata, lo aveva detto Aenea, la grande riconciliazione fra i migliori elementi del TecnoNucleo e la specie umana. Erano occorse le abilità e le percezioni sia delle IA sia degli esseri umani, per creare l’ibrida capacità di vedere direttamente nel Vuoto che lega, in modo che l’uomo apprendesse finalmente il linguaggio dei morti e dei viventi. Empatia era un altro modo per definire quella capacità ed Aenea era stata nel senso più calzante la Figlia dell’Empatia.

Chi poteva essere il padre di suo figlio?

La risposta mi colpì come un fulmine. Per un attimo, lì nella scatola di Schrödinger, rimasi sconvolto dalla logica della risposta, tanto da essere sicuro che il rivelatore in perenne ticchettio nella parete di energia della mia prigione avesse individuato la particella emessa al momento giusto e avesse già liberato il cianuro. Quale ironia, capire come stavano le cose e morire nello stesso istante!