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«Rachel è tornata a prenderli» disse Theo, ultima a salire a bordo. «Il Dalai Lama ha insistito per essere l’ultimo ad andarsene e la Scrofa Folgore è rimasta a tenergli compagnia fino al momento di partire. Ma ormai dovrebbero essere scesi. Ero pronta a risalire la cornice per vedere…»

Aenea scosse la testa. «Andremo insieme.»

Non c’era modo di far sedere e sistemare tutti: chi girava per le scale, chi stava in piedi nella biblioteca, chi era andato anche nella stanza da letto all’apice della nave per guardare dalla parete trasparente, chi si era fermato nel piano delle cuccette di crio-fuga o più giù nella sala macchine.

«Andiamo, Nave» disse Aenea. «Al Tempio a mezz’aria. Approccio diretto.»

Per la nave, l’approccio diretto fu una rapida accensione dei razzi, un arco di quindici chilometri nell’atmosfera e poi una caduta verticale sui repulsori, con l’intervento del motore principale all’ultimo istante. L’intera manovra richiese circa trenta secondi; il campo di contenimento impedì che restassimo tutti spiaccicati e la vista dalla parete trasparente di sicuro disorientò chi guardava fuori. Aenea, A. Bettik, Theo e io guardavamo il pozzetto olografico e anche quello spettacolo ridotto fu sconvolgente: mi venne voglia di afferrarmi alle paratie o di aggrapparmi al tappeto. Scendemmo a grande velocità e restammo librati cinquanta metri sopra il complesso del tempio.

«Maledizione!» esclamò Theo.

Avevamo visto un uomo precipitare nelle nubi sottostanti. Anche volendo, non avremmo potuto lanciarci in picchiata e prenderlo al volo: in un attimo lo sventurato era stato inghiottito dalle nubi.

«Chi era?» disse Theo.

«Nave» ordinò Aenea «ripeti e ingrandisci.»

Lo sventurato era Carl Linga William Eiheji, la guardia del corpo del Dalai Lama.

Qualche secondo più tardi, alcune figure emersero dal padiglione della Giusta Meditazione e si fermarono sulla piattaforma più alta, quella che meno di un mese prima avevo contribuito a costruire su progetto di Aenea.

«Merda» mi lasciai scappare. Nemes portava in una mano il Dalai Lama e lo teneva oltre il margine della piattaforma, sospeso nel vuoto. Dietro di lei c’erano i due cloni, maschio e femmina. Poi dall’ombra emersero anche Rachel e la Dorje Phamo.

Aenea mi strinse il braccio. «Raul, vuoi venire fuori con me?»

Aveva ordinato alla nave di estendere la loggia dietro lo Steinway, ma capii che non si riferiva solo a quello. «Certo» risposi, pensando: "È questa, la sua morte? Ciò che ha previsto prima di nascere? O è la mia morte?". «Certo che vengo» ripetei.

A. Bettik e Theo si mossero per uscire con noi sulla loggia. «No, per favore» disse Aenea. Toccò per un istante la mano dell’androide. «Puoi vedere tutto da dentro, amico mio.»

«Preferirei essere con lei, signorina Aenea» disse A. Bettik.

Aenea annuì. «Stavolta tocca a me e a Raul soltanto.»

A. Bettik chinò brevemente la testa e tornò a guardare l’immagine olografica. Nessuno di quelli nella biblioteca e sulla scala a chiocciola disse una parola. Nella nave c’era silenzio assoluto. Uscii con la mia amica nella loggia.

Nemes teneva ancora il Dalai Lama sospeso nel vuoto. Adesso eravamo venti metri più in alto di lei e dei suoi cloni. Mi domandai a quale altezza potessero arrivare con un salto.

«Ehi!» gridò Aenea.

Nemes alzò gli occhi. Mi tornò in mente l’effetto del suo sguardo: pareva di essere fissati da due orbite vuote. In quella creatura non c’era niente di umano.

«Mettilo giù» disse Aenea.

Nemes sorrise e lasciò andare il Dalai Lama. Con la sinistra lo afferrò al volo all’ultimo istante. «Soppesa bene le parole, bambina» disse.

«Se liberi lui e le due donne, vengo giù io.»

Nemes scrollò le spalle. «Tanto da qui non andresti via in ogni caso» disse, con voce normale, che però si udiva perfettamente.

«Lasciali liberi e verrò giù.»

Nemes scrollò di nuovo le spalle, ma gettò sulla piattaforma il Dalai Lama, come se fosse carta straccia.

Rachel corse accanto al bambino, vide che era ferito e sanguinante, ma vivo; lo rialzò e si girò, furibonda, verso Nemes e i suoi cloni.

«Nò!» gridò Aenea.

Non l’avevo mai sentita usare quel tono: inchiodò sul posto Rachel e anche me.

«Rachel» disse Aenea, con voce di nuovo calma «per favore, ora porta sulla nave Sua Santità e la Dorje Phamo.» Era un ordine espresso con cortesia, ma un ordine al quale non avrei mai potuto disubbidire. Neppure Rachel disubbidì.

La nave si abbassò lentamente, morfizzò la loggia in una scaletta e la estese. Aenea iniziò a scendere. Mi affrettai a seguirla. Mettemmo piede sulla piattaforma di cedro bonsai, avevo collaborato a sistemare tutte le assi, e Rachel passò davanti a noi, guidando il bambino e la vecchia su per la scaletta. Mentre Rachel passava, Aenea le toccò la testa. La scaletta si ritirò e tornò a essere la loggia. Theo e A. Bettik uscirono e restarono con Rachel e la Dorje Phamo. Qualcuno aveva portato dentro il bambino che sanguinava da varie ferite.

Eravamo a due metri da Rhadamanth Nemes. I due cloni l’affiancarono.

«Manca qualcuno» disse Nemes. «Dov’è il tuo… ah, eccolo.»

Lo Shrike fluì dalle ombre del padiglione. Dico fluì perché, anche se si era mosso, non l’avevo visto camminare.

Continuavo ad aprire e chiudere i pugni. Tutto era sbagliato, in quella resa dei conti. Sulla nave mi ero tolto il giubbotto termico, ma portavo ancora la stupida dermotuta e l’imbracatura da scalata, priva però di gran parte degli attrezzi. L’imbracatura e gli strati multipli mi avrebbero rallentato.

"Rallentato per cosa?" Avevo già visto Nemes in azione. Per meglio dire, non l’avevo vista, tanto era veloce. Quando lei e lo Shrike si erano affrontati su Bosco Divino, c’era stato un movimento confuso, poi delle esplosioni, poi niente. Nemes avrebbe potuto tagliare la testa a Aenea e usare le mie viscere per giarrettiere nel tempo che avrei impiegato io a stringere i pugni.

"Pugni." La nave era disarmata, ma nella biblioteca c’era il fucile d’assalto del sergente Gregorius. La prima cosa che ci avevano insegnato nella Guardia nazionale era: non combattere mai a mani nude, quando potresti ramazzare un’arma.

Mi guardai intorno. La piattaforma era pulita e spoglia: nemmeno una ringhiera da staccare e usare come bastone. Troppo ben costruita per strapparne un solo pezzo di legno.

Diedi un’occhiata alla parete a strapiombo alla mia sinistra. Niente pietre scalzate. Nelle fenditure erano rimasti piantati alcuni chiodi e tasselli da rocciatore (ci erano serviti per tenerci agganciati mentre costruivamo quel piano e il padiglione, ma poi non eravamo andati in giro a toglierli tutti) ma erano ben saldi e non sarei riuscito a estrarli (a Nemes probabilmente sarebbe bastato un solo dito) per usarli come arma. E poi, che cosa me ne facevo, di un chiodo o di un tassello a espansione, contro quel mostro?

Lì non c’era niente da usare come arma. Sarei morto a mani nude. Mi augurai di mettere a segno, prima che lei mi stendesse, un colpo, o almeno un tentativo di sventola.

Aenea e Nemes avevano occhi solo l’una per l’altra. Nemes si era limitata a un solo sguardo allo Shrike, dieci passi alla sua destra. Ora disse: «Sai che non ti riporterò alla Pax, eh, puttanella?»

«Sì» disse Aenea. Ricambiò con intensità lo sguardo dell’altra.

Nemes sorrise. «Ma credi che la tua creatura spinosa ti salverà di nuovo.»

«No» disse Aenea.

«Fai bene, perché non ti salverà.» Rivolse un cenno ai suoi cloni.

Adesso so i loro nomi, Scilla e Briareo. E so che cosa vidi dopo.

In teoria non avrei dovuto vedere nulla, perché in quell’istante tutt’e tre le creature mutarono di fase. In teoria doveva esserci solo un lampo confuso color cromo, poi il caos, poi niente… Ma Aenea mi toccò la nuca. Provai il solito formicolio elettrico del contatto fra la sua pelle e la mia, ma a un tratto la luce fu diversa, più fonda, più scura, e l’aria intorno a noi divenne densa come acqua. Mi accorsi che il mio cuore pareva essersi fermato; non battevo le palpebre, non respiravo. C’era di che allarmarsi, lo so, ma in quel momento non mi pareva importante.