«Ma se restate qui» proseguì Aenea «sarete degli emarginati. Tutti gli altri gruppi di esseri umani qui sulla Terra sono coinvolti in loro progetti, in loro esperimenti. Voi non rientrerete nello schema.»
Queste parole provocarono domande espresse a gran voce, richieste di spiegazione di misteri non compresi durante la lunga permanenza in quel campo nel deserto. Ma Aenea proseguì nel suo discorso.
«Restando qui, sprecherete ciò che il signor Wright vi ha insegnato e ciò che siete giunti a imparare su voi stessi. La Terra non ha bisogno di architetti e di costruttori. Non ora. Dobbiamo fare ritorno.»
Parlò di nuovo Jaev Peters, con voce tesa, ma calma. «E la Pax ha bisogno di costruttori e di architetti? Per costruire le sue maledette chiese?»
«Sì» rispose Aenea.
Peters colpì col pugno lo schienale del sedile davanti a lui. «Ma ci cattureranno o ci uccideranno, se scopriranno chi siamo, dove siamo stati!»
«Sì» ammise Aenea.
«E tu, bambina, fai ritorno?» domandò Bets Kimbal.
«Sì» rispose Aenea. Scese dal palcoscenico.
Ora tutti erano in piedi, gridavano o parlavano col vicino. Fu Jaev Peters a dare voce ai pensieri dei novanta orfanelli della Compagnia: «Aenea, possiamo venire con te?».
Aenea sospirò. Sul viso, che pure quel mattino appariva abbronzato e vigile, aveva anche un’aria stanca. «No» rispose. «Penso che lasciare questo posto sia come morire o nascere: ciascuno deve farlo per proprio conto.» Sorrise. «O in gruppi molto piccoli.»
Nella sala scese allora il silenzio. Quando Aenea riprese a parlare, fu come se un singolo strumento riprendesse dal punto dove l’orchestra si era fermata. «Raul partirà per primo. Stasera. A uno a uno, tutti voi troverete il giusto teleporter. Vi aiuterò io. Sarò l’ultima a lasciare la Terra. Ma la lascerò anch’io, tempo qualche settimana. Dobbiamo andare via tutti.»
I presenti, sempre silenziosi, si accalcarono intorno a Aenea. «Ma alcuni di noi si incontreranno ancora» riprese lei. «Ne sono sicura.»
Intuii l’altra faccia di quella rassicurante predizione: alcuni di noi non sarebbero sopravvissuti per incontrarsi di nuovo.
«Bene» tuonò Bets Kimbal, tenendo il braccio intorno alle spalle di Aenea «in cucina abbiamo cibo sufficiente per un’ultima festa. Il pranzo di oggi sarà un pasto che ricorderete per anni! Non viaggiare mai a pancia vuota, diceva sempre mia mamma. Chi viene ad aiutarmi in cucina?»
L’assembramento allora si frammentò, familiari e amici in gruppo, i solitari come intontiti, tutti più vicino a Aenea, mentre cominciavamo a sfilare fuori del padiglione. In quel momento avrei voluto afferrare Aenea, scuoterla fino a farle cadere i denti del giudizio e chiederle: "Che diavolo significa: Raul partirà per primo, stasera? Chi diavolo sei, per dirmi di lasciarti qui? E come pensi di costringermi?". Ma Aenea era troppo distante, circondata da troppe persone. Potei soltanto camminarle a lato, dietro la folla che si muoveva verso la cucina e la sala pranzo, con la collera scritta in viso, pugni, muscoli, andatura.
Vidi Aenea lanciarsi un’occhiata alle spalle e cercarmi, sopra il mare di teste che la circondava. Nei suoi occhi c’era una preghiera: "Lascia che ti spieghi".
Ricambiai l’occhiata, impassibile, senza trasmetterle niente.
Era quasi il crepuscolo, quando Aenea mi raggiunse nel grande garage fatto costruire dal signor Wright a mezzo chilometro dal comprensorio. L’edificio era aperto sui lati, con teloni a fare da pareti, ma aveva massicce colonne di pietra che sostenevano un solido soffitto di legno di sequoia. Era stato costruito per tenere al riparo la navetta con cui eravamo giunti Aenea, A. Bettik e io.
Avevo scostato il tendone della porta principale e mi trovavo nel vano del portello della navetta, quando Vidi Aenea attraversare il deserto e venire nella mia direzione. Al polso avevo il braccialetto comlog che non portavo da più di un anno: quell’affare conteneva gran parte della memoria della nostra ex nave spaziale, la nave del console di alcuni secoli fa, ed era stato il mio collegamento e il mio maestro, quando avevo imparato a guidare la navetta. Ora non mi occorreva — la memoria del comlog era stata scaricata nella navetta ed ero diventato un pilota piuttosto abile — ma mi dava un senso di maggiore sicurezza. Il comlog azionava anche un controllo di sistema sulla nave: chiacchierava con se stesso, si potrebbe dire.
Aenea si fermò sotto il tendone ripiegato. Il tramonto lanciava lunghe ombre dietro di lei e dipingeva di rosso la tela.
«Com’è la navetta?» mi domandò Aenea.
Lanciai un’occhiata ai dati sul comlog. «Tutto in ordine» borbottai, senza guardare dalla sua parte.
«Ha carburante e carica sufficienti per un altro volo?»
Sempre senza alzare gli occhi, armeggiai con le piastre sensibili al tocco poste sul bracciolo del sedile di pilotaggio; alla fine risposi: «Dipende dalla destinazione».
Aenea si avvicinò alla scaletta e mi toccò la gamba. «Raul?»
Stavolta fui obbligato a guardarla.
«Non essere in collera. Dobbiamo farlo.»
Ritrassi la gamba. «Maledizione, smettila di dire a me e a ogni altro cosa dobbiamo fare! Sei solo una ragazzina. Forse ci sono cose che alcuni di noi non devono fare! Forse andarmene per conto mio e lasciarti qui è una di queste.»
Scesi dalla scaletta e toccai il comlog. La scaletta rientrò nello scafo. Lasciai il garage e mi avviai verso la mia tenda. All’orizzonte il sole era una perfetta sfera rossa. Negli ultimi raggi di luce, le pietre e i teloni del comprensorio principale parevano in fiamme, il massimo terrore del Vecchio Architetto.
«Raul, aspetta!» Aenea si mise a correre per raggiungermi. Una sola occhiata nella sua direzione mi disse quanto la ragazza era sfinita. Per tutto il pomeriggio aveva incontrato persone, parlato, spiegato, rassicurato, abbracciato. Ero giunto a ritenere la Compagnia un covo di vampiri d’emozioni ed Aenea la loro unica fonte d’energia.
«Hai detto che avresti…» cominciò Aenea.
«Sì, sì» la interruppi. A un tratto ebbi l’impressione che l’adulto fosse lei e io il bambino petulante. Per nascondere la confusione, le girai le spalle e guardai il tramonto. Per un paio di secondi restammo in silenzio a guardare la luce che svaniva nel cielo sempre più scuro. Avevo stabilito che i tramonti sulla Terra erano più lunghi e più belli dei tramonti su Hyperion che ricordavo da bambino e che quelli nel deserto erano particolarmente belli. Quanti tramonti avevo condiviso con Aenea in quei quattro anni? Quante serate, pigramente trascorse a cenare e a chiacchierare sotto le vivide stelle del deserto? Possibile che quello fosse davvero l’ultimo tramonto che avremmo ammirato insieme? Il pensiero mi provocò un senso di nausea e di rabbia.
«Raul» disse di nuovo Aenea, quando le ombre si furono estese dappertutto e l’aria cominciò a raffreddarsi «vuoi venire con me?»
Non risposi, ma la seguii nella pietraia, evitando nell’oscurità le spine simili a baionette delle piante di yucca e quelle dei bassi cactus, finché non fummo nella zona illuminata del comprensorio. "Quanto tempo ci resta" mi domandai "prima che il combustibile per i generatori si esaurisca?" Conoscevo la risposta: era compito mio tenere in buone condizioni i generatori e rifornirli di carburante. Avevamo un quantitativo sufficiente per sei giorni nei serbatoi principali e per altri dieci giorni in quelli di riserva, che non bisognava toccare se non in caso di emergenza. Sparito il mercato indiano, non ci sarebbero stati rifornimenti. Quasi tre settimane di luce e di corrente per i frigoriferi e gli impianti elettrici e poi… che cosa? Tenebra, decadimento e fine dell’incessante attività di costruzione e abbattimento e ricostruzione, che era stato il rumore di fondo a Taliesin negli ultimi quattro anni.
Pensai che forse saremmo andati nel refettorio, invece passammo davanti alle finestre illuminate — gruppi di persone sedute ancora a tavola, intente a discutere con ansia, al nostro passaggio alzarono la testa per rivolgere occhiate solo a Aenea (per loro, nell’ora del panico, io ero invisibile) — e ci avvicinammo allo studio e ufficio privato del signor Wright. Non ci fermammo neppure lì. Né ci fermammo nella piccola e bella sala per conferenze, dove un gruppetto guardava un ultimo film (ancora tre settimane e poi il proiettore avrebbe smesso di funzionare) né entrammo nella sala di disegno principale.