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«È stato un errore?» mormorai.

«No» mormorò Aenea. «A meno che…»

Mi sentii mancare il cuore. «A meno che, cosa?»

«A meno che nella Guardia nazionale abbiano trascurato di farti quelle iniezioni che sono sicura ti hanno fatto» mormorò lei.

Ero così ansioso che non colsi il suo tono di presa in giro. «Cosa? Iniezioni? Cosa?» Mi rotolai sul fianco, puntai il gomito. «Oh… iniezioni… merda. Sai che me le hanno fatte. Cristo.»

«Lo sapevo» mormorò Aenea, e ora mi accorsi che sorrideva.

Quando noi ragazzi di Hyperion eravamo entrati nella Guardia nazionale, avevamo avuto dalle autorità la solita sfilza di iniezioni approvate dalla Pax: antimalaria, anticancro, antivirus, controllo delle nascite. In un universo dove la grande maggioranza di individui ha scelto il crucimorfo, per essere immortale, il controllo delle nascite era un obbligo. Dopo il matrimonio ci si poteva rivolgere alle autorità della Pax per avere l’antidoto o lo si poteva semplicemente acquistare al mercato nero quand’era il momento di mettere su famiglia. Oppure, se non si sceglieva né la croce né la famiglia, l’effetto anticoncezionale sarebbe durato finché l’età avanzata o la morte non avessero reso superata la faccenda. Erano anni che non avevo più pensato a quella iniezione. A dire il vero, mi pare che A. Bettik mi abbia fatto domande su quelle iniezioni, nella nave del console, dieci anni fa, quando parlavamo di medicina preventiva; avevo accennato alla sfilza di iniezioni nella Guardia nazionale, mentre la nostra giovane amica undicenne o dodicenne, rannicchiata sul divano nella sala del pozzetto olografico, con aria completamente assorta leggeva un libro preso dalla biblioteca della nave…

«No» dissi, sempre puntellato sul gomito «intendevo uno sbaglio. Tu sei…»

«Sono io» bisbigliò lei.

«Sei una ventunenne standard» conclusi. «Io sono…»

«Sei tu» bisbigliò lei.

«… undici anni standard più anziano.»

«Incredibile» disse Aenea. Mi guardò in viso e aveva tutta la faccia illuminata dalla luna. «Riesci a fare di conto. In momenti come questo.»

Sospirai e mi girai sullo stomaco. Le lenzuola odoravano di noi. Il vento continuava ad alzarsi e ora scuoteva le pareti.

«Ho freddo» mormorò Aenea.

Nei giorni e mesi a venire, se avesse detto d’avere freddo, l’avrei tenuta fra le mie braccia; quella notte invece presi alla lettera le sue parole e mi alzai per andare a chiudere il paravento shoji. Il vento era più gelido del solito.

«No» disse Aenea.

«No, cosa?»

«Non chiuderlo tutto.» Si era messa a sedere e si teneva addosso il lenzuolo, appena sotto i seni.

«Ma fa…»

«La luce della luna su di te» bisbigliò Aenea.

Può darsi che fosse la sua voce a causare la mia reazione fisica. O la vista di lei che mi aspettava fra le coperte. Oltre a contenere il nostro odore, la stanza aveva l’odore di paglia fresca, per il nuovo tatami e il ryokan nel soffitto. E dell’aria pulita e pungente delle montagne. Ma la brezza fredda non rallentò la mia reazione.

«Vieni qui» bisbigliò Aenea. Aprì le coperte per avvolgermi come in un mantello.

Oggi lavoro a sistemare al suo posto la passerella della sporgenza e mi sento un sonnambulo. Parte del problema consiste nella mancanza di sonno — quando Aenea è tornata al suo padiglione, l’Oracolo era tramontato e l’oriente cominciava a schiarirsi per il mattino — ma la ragione principale è il puro e semplice stupore. La vita ha preso una piega che non avevo mai previsto, mai immaginato.

Sistemo nella parete dello strapiombo i sostegni per la passerella; i montatori Haruyuki, Kenshiro e Voytek Majer mi precedono e scavano i fori nella roccia; dietro di noi e sotto di noi Kim Byung-Soon e Viki Groselj posano mattoni; il carpentiere Changchi Kenchung inizia a stendere lo strato del pavimento di legno della terrazza. Se ieri Lhomo non avesse fatto la sua esibizione di free-climbing e sistemato corde fisse e cavi, non ci sarebbe niente a bloccare i montatori e me in caso di caduta dalle travi di legno. Ora, quando saltiamo di trave in trave, ci limitiamo ad agganciare alla fune seguente un moschettone della nostra imbracatura. Ho già fatto l’esperienza di cadere e di arrestare la caduta grazie a una di quella sorta di corde fisse: ciascuna può reggere cinque volte il mio peso.

Balzo da una trave già piazzata all’altra e mi tiro dietro quella da sistemare, appesa a uno dei cavi. Il vento comincia ad alzarsi e minaccia di farmi cadere nel vuoto, ma mi tengo in equilibrio toccando con una mano la trave appesa e con tre dita la parete di roccia. Raggiungo la fine della terza corda fissa, mi sgancio e mi preparo ad agganciarmi alla quarta delle sette corde allestite da Lhomo.

Non so che cosa pensare della notte appena trascorsa. Cioè, so come mi sento — esilarato, confuso, estatico, innamorato — ma non so che cosa pensare. Ho provato a intercettare Aenea prima di colazione nel refettorio comune vicino ai quartieri dei monaci, ma lei aveva già mangiato e si era diretta alla nuova passerella orientale, dove gli scalpellini incontravano delle difficoltà. Poi sono arrivati A. Bettik, George Tsarong, Jigme Norbu e i portatori e ho perso un paio d’ore per mettere in ordine i materiali e trasportare travi, scalpelli, legname e altri oggetti alle nuove impalcature alte. Poi, prima che iniziasse la sistemazione delle travi, mi ero diretto fuori sulla cornice est, ma in quel momento A. Bettik e Tsipon Shakabpa parlavano con Aenea, così ero tornato alle impalcature e mi ero messo al lavoro.

E ora saltavo sull’ultima trave messa in opera stamattina, pronto a installare la successiva nel foro scavato da Kenshiro e fatto implodere nella roccia mediante minuscole cariche sagomate. Poi Voytek e Viki cementeranno la trave al suo posto. Nel giro di trenta minuti sarà abbastanza solida perché Changchi vi sistemi una piattaforma di lavoro. Mi sono abituato a saltare di trave in trave, mantenendo l’equilibrio e accovacciandomi per mettere in posizione la trave successiva; e ora così faccio per l’ultima trave, agito il braccio sinistro per mantenere l’equilibrio e tengo le dita a contatto con la trave appesa al cavo. All’improvviso il dondolio spinge la trave troppo davanti a me e perdo l’equilibrio, sporgo nel vuoto. So che la fune di sicurezza mi tratterrà, ma non mi piace cadere e penzolare fra l’ultima trave e il foro appena scavato: se non ho slancio sufficiente a darmi la spinta all’indietro e tornare sulla trave, devo aspettare che Kenshiro o un altro montatore si dia una spinta in fuori e mi ricuperi.

In una frazione di secondo prendo la decisione e salto, afferro la trave penzolante e mi do la spinta. Poiché la fune di sicurezza ha un gioco di alcuni metri, ora tutto il mio peso è concentrato sulle dita. La trave è troppo spessa per fornirmi una buona presa e sento le dita scivolare sul legno duro come ferro. Piuttosto che lasciarmi cadere contro l’estremità elastica della corda fissa, mi sforzo di restare aggrappato, riesco a far dondolare la trave indietro verso l’ultima già in posizione e con un balzo supero gli ultimi due metri, atterro sulla scivolosa trave e agito le braccia per riprendere l’equilibrio. Ridendo della ridicola figura appena fatta, ritrovo l’equilibrio e per un attimo riprendo fiato e guardo le nuvole ribollire contro la parete rocciosa, parecchie migliaia di metri più in basso.

Changchi Kenchung salta di trave in trave verso di me, agganciandosi rapidamente alle corde fisse. Negli occhi ha uno sguardo inorridito e per un secondo sono sicuro che Aenea ha avuto un incidente. Il cuore comincia a battermi all’impazzata e l’ansia mi travolge all’improvviso, tanto che rischio di perdere di nuovo l’equilibrio. Mi riprendo, rimango in bilico sull’ultima trave già sistemata e con un sinistro presentimento aspetto Changchi.

Quando balza sull’ultima trave e mi raggiunge, Changchi è senza fiato e non riesce a parlare. Gesticola con insistenza verso di me, ma non capisco. Forse ha visto il mio comico balletto con la trave dondolante e si è preoccupato. Per fargli capire che tutto è a posto, gli mostro l’imbracatura e il moschettone saldamente agganciato alla fune di sicurezza.