Il tenente tirò un colpo al bersaglio grosso, un fendente da sinistra a destra. Saltai all’indietro sul bordo del tappeto, ma ero in ritardo: la piccola lama affilata mi tagliò carne e muscolo sul dorso del braccio destro, proteso a prendere la pistola. Stavolta sentii il dolore e mandai un grido. Il tenente sorrise. Sempre acquattato, sapendo che non avevo dove andare, avanzò di mezzo passo e vibrò in avanti il coltello, in un arco destinato a sventrarmi.
Quando mi aveva colpito, mi stavo girando sulla destra; ora continuai il movimento e mi tuffai dal tappeto hawking, con stile perfetto, mani di fronte al corpo mentre urtavo l’acqua dieci metri più in basso. L’oceano era salato e buio. Non avevo nemmeno inspirato a fondo prima di colpire l’acqua e per un orribile attimo non capii letteralmente da quale parte fosse l’alto. Poi vidi il bagliore delle tre lune e scalciai in quella direzione. Emersi con la testa in tempo per vedere il tenente ancora in piedi sul tappeto hawking che ora distava trenta metri dalla piattaforma e forse venticinque dall’acqua e continuava a salire. Si sporgeva in avanti e guardava nella mia direzione: pareva aspettare che tornassi, per concludere il combattimento.
Non sarei certo tornato, ma volevo anch’io concludere il combattimento. Cercai a tentoni la rivoltella, aprii la fondina, estrassi l’arma e cercai di tenermi a galla sulla schiena per prendere la mira. Il bersaglio saliva e presto sarebbe scomparso, ma si stagliava ancora contro l’incredibile luna, mentre tiravo indietro il cane e tenevo ferme le braccia.
Il tenente aveva lasciato perdere me e si era girato verso la confusione sulla piattaforma: in quel momento i soldati aprirono il fuoco. Mi precedettero di un secondo. Non credo che avrei centrato il tenente, da quella distanza. Ma era impossibile che i soldati lo mancassero.
Almeno tre nugoli di fléchettes lo colpirono nello stesso istante, sbattendolo giù dal tappeto hawking come un sacco di biancheria lavata lanciato in aria. Vidi la luce delle lune attraverso il corpo crivellato che cadeva verso le onde. L’attimo dopo, uno squalo multicolore mi sfiorò… mi spinse addirittura da parte, nella bramosia d’azzannare la massa sanguinolenta che era stata il tenente della Pax.
Rimasi lì a galla ancora un secondo, guardando il tappeto hawking, finché qualcuno sulla piattaforma non lo afferrò al volo. Avevo avuto l’infantile speranza che il tappeto facesse un’ampia curva e tornasse a prendermi, mi tirasse fuori dell’acqua e mi riportasse alla zattera, in quel momento un paio di chilometri a nord di lì. Mi ero affezionato al tappeto hawking (ero compiaciuto di far parte del mito e della leggenda che rappresentava) e nel vederlo volare via da me per sempre in quel modo, mi sentii rivoltare lo stomaco.
Avevo davvero la nausea. Tra le ferite e l’acqua ingerita (per non parlare dell’effetto dell’acqua salata sulle ferite) la nausea era reale. Continuai a stare a galla, movendo i piedi per tenermi con la testa e le spalle fuor d’acqua, impugnando a due mani la pesante rivoltella.
Per nuotare, avrei dovuto spezzare con un colpo le manette. Ma come potevo riuscirci? La barretta d’acciaio che le collegava era lunga solo la metà del mio polso; per quanto mi contorcessi, non riuscivo a sistemare il muso della rivoltella in modo da tranciare con un proiettile la barretta metallica.
Intanto le pinne avevano smesso di girare intorno ai resti del tenente e si allontanavano dal banchetto. Sapevo di perdere molto sangue. Sentivo la chiazza appiccicosa sul fianco e sul dorso del braccio, dove il sangue salato gocciolava nel mare salato. Se quelle creature assomigliavano solo un poco ai dorso-a-sciabola o agli squali, sentivano l’odore del sangue a chilometri di distanza. La mia unica speranza era di nuotare fino alla piattaforma, usando la rivoltella sulle prime pinne che si fossero avvicinate, aggrapparmi se possibile a un pilone e tirarmi fuori o chiamare aiuto. Non avevo altre speranze.
Mi lasciai andare sul dorso, mossi i piedi, mi girai sullo stomaco e cominciai a nuotare invece verso nord, verso l’oceano aperto. Già una volta quel giorno ero stato sulla piattaforma. Bastava e avanzava.
34
Prima d’allora non avevo mai provato a nuotare con le mani legate davanti al corpo. Mi auguro di tutto cuore che non mi tocchi mai più ripetere l’esperienza. Solo l’alta salinità di quell’oceano mi mantenne a galla, mentre scalciavo, mi dibattevo, mi dimenavo per avanzare verso nord. Non avevo una vera speranza di raggiungere la zattera: circa un chilometro a nord della piattaforma, la corrente diventava più forte e il nostro piano prevedeva di tenere la zattera il più lontano possibile dalla stazione senza uscire dall’invisibile fiume nell’oceano.
Nel giro di qualche minuto inoltre gli squali cominciarono di nuovo a girarmi intorno. Sotto le onde vedevo benissimo i loro colori brillanti, elettrici; quando uno squalo si muoveva come per attaccare, smettevo di agitare le braccia, mi tenevo a galla e gli mollavo un calcio in testa per tenerlo a bada, proprio come avevo visto fare al povero tenente. Il sistema pareva funzionare. Quei pesci erano indubbiamente micidiali, ma anche stupidi: attaccavano uno per volta, come se seguissero una scala gerarchica, così li prendevo a calci sul muso uno per volta. Ma era un procedimento estenuante. Un attimo prima d’essere assalito, avevo iniziato a togliermi gli stivali (il cuoio inzuppato mi tirava a fondo) ma il pensiero di colpire a piedi nudi quelle teste arrotondate e zannute m’indusse a tenerli il più a lungo possibile. Inoltre mi convinsi presto di non poter nuotare impugnando la rivoltella. Quando attaccavano, quelle creature simili ai dorsi-a-sciabola si tuffavano, perché emergere sotto la preda pareva il loro sistema d’aggressione preferito, e non ero sicuro che un proiettile di una vecchia sparapiombo avrebbe ottenuto grandi risultati, se avesse dovuto attraversare un paio di metri d’acqua. Alla fine rimisi nella fondina la rivoltella e presto rimpiansi di non averla lasciata cadere a fondo. Tenendomi a galla e rigirandomi per non perdere di vista le coppie di pinne, alla fine mi tolsi gli stivali e lasciai che si perdessero negli abissi. Quando lo squalo seguente mi assalì, lo scalciai con forza e sentii che sopra il minuscolo cervello aveva pelle ruvida, simile a carta smerigliata. La creatura tentò d’azzannarmi i piedi, ma si allontanò e riprese a girare in tondo.
A questo modo nuotai sempre verso nord, fermandomi, galleggiando, scalciando, imprecando, facendo a nuoto qualche metro, fermandomi di nuovo per girare in tondo in attesa dell’attacco seguente. Senza il vivido chiarore delle lune e il luccichio della pelle degli squali, una di quelle creature mi avrebbe già finito da tempo. Comunque, in breve fui troppo stanco per proseguire: potevo solo stare a galla sul dorso, ansimare per riempirmi d’aria i polmoni e mettere i piedi fra le mie gambe e quei denti candidi, ogni volta che scorgevo un guizzo di colori puntare su di me.
Ora le ferite mi facevano un male d’inferno. Il profondo squarcio lungo le costole mi provocava un terribile bruciore e mi sentivo appiccicoso lungo tutto il fianco. Ero sicuro di sanguinare e approfittai di un momento in cui le pinne dorsali giravano abbastanza lontano per tastarmi e tirare fuor d’acqua le mani. Erano rosse… molto più rosse del mare che risplendeva alla luce della grande luna ormai alta sull’orizzonte. Mi sentivo sempre più debole e capii che sarei morto dissanguato. L’acqua diventava più tiepida, come se il mio sangue la scaldasse a una temperatura piacevole, e di minuto in minuto sentivo crescere la tentazione di chiudere gli occhi e di lasciarmi sprofondare in quel tepore.
Ogni volta che l’onda mi portava in alto, continuavo a guardarmi alle spalle, lo ammetto, in cerca di un segno della zattera… di un miracolo da nord. Non vidi niente. Una parte di me ne fu compiaciuta: ormai probabilmente la zattera aveva varcato il portale. Non era stata intercettata. Non avevo visto skimmer in volo, neppure tòtteri, e la piattaforma era solo un bagliore d’incendio sempre più piccolo verso sud. Potevo solo augurarmi, ora che la zattera aveva varcato senza incidenti il portale, d’essere raccolto da un tòttero in perlustrazione, ma nemmeno l’idea di un simile salvataggio riusciva a rallegrarmi. Quel giorno ero già stato una volta sulla piattaforma.