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Ora de Soya è in piedi accanto alla finestra. La luna maggiore riempie il cielo orientale. L’arco del teleporter è ben visibile, stagliato contro la luna. — Il termine esatto è "tappeto hawking" — dice piano de Soya, quasi in un mormorio. — In un luogo chiamato la Valle delle Tombe del Tempo, avrebbe lasciato proprio la firma radar laggiù rilevata. — Rivolge ancora un cenno al sergente Gregorius.

Con un solo colpo della mano guantata il sottufficiale delle Guardie Svizzere scardina l’armadietto d’acciaio. Sposta scatole, fascicoli, mucchi di banconote… ed estrae un tappeto accuratamente arrotolato. Lo porta alla scrivania del direttore.

— Arrestate quest’uomo e toglietemelo da sotto gli occhi — ordina con calma il Padre Capitano de Soya. Il tenente Sproul e il caporale Kee fanno uscire dall’ufficio il direttore che continua a protestare.

De Soya e Gregorius srotolano sulla scrivania il tappeto hawking. Alla luce delle lune, gli antichi fili di volo mandano ancora riflessi dorati. De Soya tocca il margine frontale dell’antico manufatto, tasta i tagli e gli strappi dove le fléchettes hanno lacerato il tessuto. C’è sangue dappertutto, oscura l’elaborato disegno e rende opaco il luccichio dei monofilamenti di superconduttore. Brandelli di quella che potrebbe essere carne umana sono impigliati nella corta frangia sulla parte posteriore del tappeto.

De Soya guarda Gregorius. — Sergente, hai mai letto quel lungo poema intitolato i Canti?

— I Canti, signore? No… non sono il tipo che legge molto. E poi, non è nell’elenco dei libri proibiti?

— Sì, credo che sia all’indice, sergente — dice il Padre Capitano de Soya. Si scosta dall’insanguinato tappeto hawking e guarda le lune e il profilo del portale. "Questa è una tessera del puzzle" pensa. "E quando il puzzle sarà completo, ti avrò, bambina."

— Sì, credo che sia all’indice, sergente — ripete. Si gira in fretta e si dirige alla porta, indicando con un gesto a Rettig di arrotolare il tappeto e di portarlo con sé. — Andiamo. — Mette nel tono più energia di quanta non abbia mostrato da settimane. — Abbiamo da fare.

33

Il ricordo dei venti minuti che trascorsi nell’ampia e luminosa sala mensa assomiglia molto a quegli incubi che prima o poi tutti abbiamo: sapete a quali mi riferisco, quelli in cui ci troviamo in un posto emerso dal nostro passato, ma non riusciamo a ricordare per quale motivo ci troviamo lì né il nome delle persone che ci circondano. Quando il tenente e i suoi due uomini mi accompagnarono nella sala mensa, tutto nella stanza aveva la dislocazione, tipica degli incubi, di una cosa un tempo ben nota. Dico ben nota perché avevo trascorso buona parte dei miei ventisette anni in accampamenti di cacciatori e in mense militari, in bar di sale da gioco e in cambuse di vecchie chiatte. Conoscevo bene le compagnie maschili: fin troppo, avrei potuto dire allora, perché gli elementi che percepivo in quella sala… baldoria, spacconate, l’untuoso odore dolciastro d’uomini innervositi dalla vita urbana in preda al cameratismo maschile dell’avventura… m’avevano da tempo stufato. Ma ora quella familiarità era compensata dalla stranezza: i brani di discorsi ricchi di cadenza dialettale, la sottile differenza nell’abbigliamento, il puzzo di suicidio dovuto alle sigarette e la consapevolezza che mi sarei tradito immediatamente se avessi dovuto vedermela con la loro lingua corrente, cultura, relazioni.

Sul tavolo più lontano c’era un alto contenitore di caffè… non ero mai stato in una mensa che non l’avesse. Mi diressi da quella parte, cercando d’assumere un’aria noncurante, trovai una tazza relativamente pulita e mi versai un po’ di caffè. Intanto tenevo d’occhio il tenente e i suoi due uomini che tenevano d’occhio me. Quando si convinsero che facevo parte del gruppo, i tre si girarono e uscirono. Sorseggiai un caffè orribile, notai oziosamente che la mano non mi tremava malgrado fossi in preda a un uragano d’emozioni e cercai di stabilire come comportarmi.

Incredibilmente, avevo ancora le armi (coltello e pistola) e la radio. Con la radio avrei potuto in qualsiasi momento far esplodere il plastico e poi, nella confusione, correre a recuperare il tappeto hawking. Ora che avevo visto le sentinelle della Pax, sapevo che sarebbe stata necessaria una manovra diversiva affinchè la zattera passasse accanto alla piattaforma senza essere vista. Andai alla finestra che dava su quello che consideravamo il nord, ma vidi il cielo "orientale" illuminato dall’imminente sorgere delle lune. L’arcata del teleporter era visibile a occhio nudo. Provai ad aprire la finestra, ma era chiusa in un modo che non riuscivo a capire, oppure era imbullonata. Circa un metro sotto la finestra c’era il tetto di lamiera ondulata di un altro modulo, ma non vedevo come arrivarci da lì.

— Tu con chi sei, figliolo?

Mi girai di scatto. Cinque uomini si erano staccati dal gruppo più vicino e uno di loro, il più basso e più grasso, mi aveva rivolto la parola. L’uomo indossava abiti sportivi (camicia di flanella a quadri, giubbotto di tela non molto diverso dal mio) e portava alla cintura un coltello per squamare pesce. Solo allora mi resi conto che forse i soldati della Pax avevano visto la punta della fondina sporgere dal giubbotto e l’avevano scambiata per il fodero di uno di quei coltelli.

Anche il grassone aveva parlato in dialetto, ma un dialetto diverso da quello delle sentinelle della Pax. I pescatori, ricordai, probabilmente provenivano da altri pianeti, per cui il mio modo di parlare forse non avrebbe destato troppi sospetti.

— Klingman — dissi, bevendo un altro sorso di quel caffè dal sapore di fanghiglia. Con i soldati della Pax, quell’unica parola aveva funzionato.

Con quegli uomini non funzionò. Si scambiarono delle occhiate e poi il grassone disse: — Siamo venuti con il gruppo Klingman, ragazzo. Fin qui, da Santa Teresa. Non eri sull’aliscafo. Qual è il tuo gioco?

Sorrisi. — Nessun gioco — risposi. — Dovevo fare parte del gruppo… l’ho mancato, a Santa Teresa… e mi sono aggregato agli Autery.

M’era andata ancora buca. I cinque parlottarono tra loro. Varie volte colsi le parole "pescatori di frodo". Due di loro lasciarono la sala. Il grassone puntò il dito su di me. — Ero seduto laggiù con la guida del gruppo Autery. Anche lui non ti ha mai visto prima. Resta lì, figliolo.

Era l’unica cosa che non avrei fatto di sicuro. Posai sul tavolo la tazza e dissi: — No, resta lì tu. Vado a chiamare il tenente, così mettiamo in chiaro qualche cosetta. Non muoverti.

Il grassone parve confuso e rimase dov’era, mentre attraversavo la sala mensa, ora silenziosa, aprivo la porta e uscivo sulla passerella.

Non c’era posto dove andare. Alla mia destra, i due soldati della Pax armati di fucile a fléchettes stavano all’erta accanto alla ringhiera. Alla mia sinistra, il magro tenente con cui poco prima m’ero scontrato percorreva in fretta la passerella verso di me, seguito dai due civili e da un grassoccio capitano della Pax.

— Maledizione — dissi. Usai il laringofono. «Ragazzina» trasmisi «sono nei guai. Potrebbero catturarmi. Lascerò aperto il microfono esterno, così potrai udire. Vai dritto al portale. E non rispondere!» Ci mancava solo che durante la conversazione una vocina trillasse dall’auricolare.

— Ehi! — dissi, avanzando verso il capitano e alzando la mano come per stringergli la sua. — Proprio la persona che cercavo.

— È lui — gridò uno dei due pescatori. — Non è giunto con noi né con il gruppo Autery. È uno dei maledetti pescatori di frodo di cui lei parlava!

— Ammanettatelo — ordinò il capitano. Prima che potessi tentare una mossa intelligente, i soldati alle mie spalle mi afferrarono e il magro tenente mi ammanettò. Erano manette metalliche del vecchio tipo, ma funzionavano benissimo: erano tanto strette da bloccare quasi la circolazione del sangue.