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Un pensiero cercò di farsi strada nel mio cervello ottenebrato. Attesi che si manifestasse compiutamente. — Hebron… non aveva… non credo che avesse…

— Ha ragione, signore — disse A. Bettik. Diede un colpetto al libro che aveva appena consultato. — Secondo la guida, Hebron non faceva parte del Teti e aveva un unico terminal di teleporter, a Nuova Gerusalemme, anche nei tempi d’oro della Rete. Ai visitatori di altri pianeti non era consentito lasciare la capitale. Qui tenevano in gran conto riservatezza e indipendenza.

Guardai scorrere le pareti dell’acquedotto. All’improvviso fummo fuori della grande condotta e continuammo a muoverci fra alte dune e rocce bruciate dal sole. Il caldo era tremendo.

— Ma il libro sbaglia di sicuro — disse Aenea, bagnandomi di nuovo la fronte. — Il portale era lì… e noi siamo qui.

— Sei certa… che sia… Hebron? — mormorai.

Aenea annuì. A. Bettik mi mostrò il braccialetto comlog. L’avevo dimenticato. — Il nostro amico meccanico ha fatto un buon rilevamento delle stelle — disse l’androide. — Siamo su Hebron e… direi… solo a qualche ora di distanza da Nuova Gerusalemme.

A quel punto fui assalito dal dolore; cercai di non farlo capire, ma evidentemente mi contorsi. Aenea estrasse l’iniettore di ultramorfina.

— No — dissi, tra le labbra screpolate.

— Questa è l’ultima, per un poco — mormorò Aenea. Udii il sibilo e sentii diffondersi la benedetta insensibilità. "Se c’è un dio" pensai "è un analgesico."

Quando ripresi i sensi, le ombre si erano allungate e ci trovavamo al riparo di un basso edificio. A. Bettik mi portava di peso giù dalla zattera. Ogni gradino mi provocava fitte lancinanti. Non emisi suono.

Aenea ci precedeva. La via era larga e polverosa, gli edifici erano bassi (nessuno superava i tre piani) e di un materiale simile all’adobe. Non si vedeva nessuno.

— Ehi! — chiamò Aenea, con le mani a coppa intorno alla bocca. Il richiamo echeggiò nella via deserta.

Mi sentivo sciocco a lasciarmi portare come un bambino, ma A. Bettik pareva non badarci e sapevo che non sarei riuscito a reggermi in piedi nemmeno a costo della vita.

Aenea tornò verso di noi, vide che avevo aperto gli occhi. — Questa città è Nuova Gerusalemme — disse. — Non ci sono dubbi. Secondo la guida, al tempo della Rete qui vivevano tre milioni di persone e A. Bettik dice che ce n’era ancora almeno un milione, l’ultima volta che ne ha sentito parlare.

— Gli Ouster… — riuscii a dire.

Aenea annuì. — Negozi e case lungo il canale sono abbandonati, ma danno l’impressione che siano stati abitati fino a qualche settimana o mese fa.

— Secondo le trasmissioni captate su Hyperion — disse A. Bettik — si supponeva che questo pianeta fosse caduto in mano agli Ouster circa tre anni standard fa. Ma ci sono segni d’abitazione molto più recenti.

— La griglia energetica è ancora in funzione — disse Aenea. — Il cibo rimasto in giro è ormai guasto, ma i compartimenti frigoriferi sono ancora freddi. In alcune case c’è la tavola apparecchiata, le piazzole olografiche ronzano per la statica, le radio sibilano. Ma non c’è gente.

— E neppure segni di violenza — aggiunse l’androide, calandomi con cautela in un veicolo terrestre munito di pianale metallico nella parte posteriore, dietro la cabina di guida. Il dolore al fianco mi fece vedere puntini luminosi.

Aenea si strofinò le braccia. Aveva la pelle d’oca, malgrado l’ardente calore della sera. — Ma qui è avvenuto qualcosa di terribile — disse. — Lo sento.

Io invece non sentivo altro che dolore e febbre. I miei pensieri erano come mercurio… scivolavano sempre via, prima che potessi afferrarli o sagomarli in forma coerente.

Aenea saltò sul pianale del veicolo e si accovacciò al mio fianco, mentre A. Bettik apriva la portiera ed entrava nella cabina. Sorprendentemente, il veicolo si mise in moto al semplice tocco della piastra d’accensione. — So guidarlo — disse l’androide, innestando la marcia.

"Anch’io" pensai, come se mi rivolgessi a loro. "Su Ursus ho guidato un veicolo simile. Una delle poche macchine dell’universo che so far funzionare. Forse una delle poche cose che so fare senza incasinare tutto."

Procedemmo sobbalzando nella via principale. Il dolore mi faceva gridare, a volte, malgrado tutti gli sforzi per stare in silenzio. Serrai le mascelle.

Aenea mi teneva la mano. Le sue dita mi parevano così fredde da mettermi i brividi. Mi resi conto che ero io, a scottare.

— … colpa della maledetta infezione — diceva in quel momento Aenea. — Altrimenti a quest’ora saresti già guarito. Qualcosa nell’oceano.

— O nel coltello — mormorai. Chiusi gli occhi e rividi il tenente volare in mille pezzi, dilaniato dal nugolo di fléchettes. Riaprii gli occhi per cancellare l’immagine. Ora gli edifici erano più alti, almeno dieci piani, e gettavano un’ombra più fitta. Ma il caldo era terribile.

— … un amico di mia madre, che partecipò all’ultimo pellegrinaggio su Hyperion, visse qui per un certo tempo — diceva Aenea. Mi pareva che la sua voce oscillasse, vicina e lontana, come una radio mal sintonizzata.

— Sol Weintraub — gracchiai. — Lo studioso, nei Canti del vecchio poeta.

Aenea mi diede un colpetto sulla mano. — Dimentico sempre che tutte le esperienze di mia madre sono diventate grano per il leggendario mulino di zio Martin.

Sobbalzammo su una gobba dell’asfalto. Digrignai i denti per non gridare.

Aenea aumentò la stretta sulla mia mano. — Sì — disse. — Mi sarebbe piaciuto conoscere l’anziano studioso e sua figlia.

— Sono andati… avanti… nella Sfinge — riuscii a dire. — Come… te.

Aenea si chinò su di me, con l’acqua della borraccia m’inumidì le labbra e annuì. — Sì. Ma ricordo le storie di Mamma, su Hebron e sui kibbutz locali.

— Ebrei — mormorai e smisi di parlare. Sciupavo troppa energia che mi occorreva per combattere il dolore.

— Fuggirono dal Secondo Olocausto — disse Aenea, guardando ora avanti, mentre il veicolo girava l’angolo. — Chiamavano Diaspora la loro Egira.

Chiusi gli occhi. Il tenente volò in brandelli, abiti e carne ridotti a lunghe stelle filanti che scendevano lentamente a spirale sul mare violaceo…

All’improvviso mi accorsi che A. Bettik mi sollevava. Entravamo in un edificio più grande e più snello degli altri, tutto plastacciaio e vetro temperato. — Il centro medico — disse l’androide. La porta automatica si aprì con un sibilo davanti a noi. — La corrente c’è. Ora, se solo le attrezzature mediche sono intatte…

Evidentemente mi appisolai per qualche secondo, perché quando riaprii gli occhi, terrorizzato dalle pinne dorsali che mi accerchiavano sempre più da vicino, mi ritrovai sopra un ripiano a rotelle che qualcuno faceva scivolare nel cilindro di un robochirurgo diagnostico.

— Ci vediamo più tardi — diceva in quel momento Aenea. Mi lasciò la mano. — Ci vediamo dall’altra parte.

Restammo su Hebron per tredici giorni locali, ciascuno pari a circa ventinove ore standard. Per i primi tre giorni il robochirurgo si sfogò su di me: non meno di otto operazioni invasive e una buona decina di trattamenti terapeutici, almeno secondo la tabella digitale.

Era proprio con una forma di vita microrganica che quel miserabile oceano di Mare Infinitum aveva deciso di uccidermi, anche se, quando vidi la risonanza magnetica e le scansioni bioradar, mi resi conto che alla fin fine quell’organismo non era poi tanto microscopico. Qualsiasi cosa fosse (la robodiagnosi era incerta) aveva attecchito lungo l’interno della costola scorticata ed era cresciuto come i funghi delle felci fino a diramarsi negli organi interni. Se avesse tardato ancora di un giorno standard l’intervento, riferì più tardi il robochirurgo, avrebbe trovato solo licheni e materia decomposta.

Dopo avermi aperto e ripulito, dopo avere ripetuto altre due volte il procedimento perché tracce infinitesimali dell’organismo oceanico avevano iniziato a riprodursi, il robochirurgo dichiarò che il fungo era ormai debellato e si mise a lavorare sulle ferite che presentavano una minaccia meno immediata per la mia vita. Per lo squarcio al fianco sarei di sicuro morto dissanguato… soprattutto a causa degli sforzi nel calciare e dell’alto ritmo delle pulsazioni provocato dai miei amici con le pinne dorsali. Le cartucce di plasma del vecchio medipac e alcuni giorni di stato comatoso per le abbondanti dosi d’ultramorfina mi avevano mantenuto in vita fin quando il chirurgo non aveva potuto iniettarmi altre otto unità di plasma sanguigno.