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— Bene. — Rivolsi un cenno di saluto al monsignore e al suo segretario e con un gesto invitai Hunt a seguirmi; battei il codice di tre cifre per Tau Ceti Centro, aggiunsi due cifre per il continente, altre tre per la Casa del Governo e ancora due per il terminex privato nell'edificio. Il ronzio del teleporter crebbe di una tacca, la superficie opaca parve scintillare di aspettativa.

Varcai per primo il portale e mi spostai di lato per lasciare spazio a Hunt.

Non siamo nel terminex centrale della Casa del Governo. Per quanto ne capisco, non siamo neppure da quelle parti. In un attimo i miei sensi sommano l'input di luce del sole, colore del cielo, gravità, distanza dell'orizzonte, odori e sensazioni delle cose: non siamo su Tau Ceti Centro.

Avrei dovuto fare subito un balzo indietro, ma la Porta del Papa è piccola e Hunt ne emerge… gamba, braccio, spalla, petto, testa, seconda gamba; lo afferro per il polso, lo tiro bruscamente dalla mia parte, dico: — C'è uno sbaglio! — e cerco di varcare di nuovo il portale: troppo tardi. Il portale, privo di intelaiatura da questo lato, brilla, si contrae fino a diventare un cerchio grande quanto il mìo pugno, scompare.

— Dove diavolo siamo? — domanda Hunt.

Mi guardo intorno e penso: "Ottima domanda". Siamo in aperta campagna, sulla cima di un colle. In basso una strada serpeggia fra vigneti, scende un lungo pendio tra una valletta boscosa, scompare intorno a un altro colle lontano un paio di miglia. Fa molto caldo e l'aria ronza di insetti, ma nell'ampio panorama non si muove niente di più grosso di un uccello. Fra le scogliere alla nostra destra si intravede una macchia azzurra… l'oceano o il mare. Nel cielo corrono alti cirri; il sole ha appena passato lo zenit. Non vedo case, né tecnologia più complessa dei filari di vigneto e della strada di pietra e fango. Inoltre, il brusio costante della sfera dati è sparito. Sembra quasi di udire all'improvviso l'assenza di un rumore in cui si è stati immersi dall'infanzia: sorprende, sconvolge, rende perplessi e spaventa un poco.

Hunt barcolla, si stringe le orecchie come se sentisse davvero l'assenza di suono, dà un colpo al comlog. — Maledizione — brontola. — Maledizione. L'impianto non funziona. Il comlog è morto.

— No — dico. — Secondo me, siamo al di là della sfera dati. — Mentre lo dico, sento un ronzio più basso e più debole… qualcosa di molto più esteso e molto meno accessibile della sfera dati. La megasfera? "La musica delle sfere" penso; e sorrido.

— Cosa diavolo ha da ridere, Severn? L'ha fatto apposta?

— No. Ho battuto il codice giusto per la Casa del Governo. — La totale mancanza di panico, nel mio tono, è panico di per sé.

— Cosa, allora? La maledetta Porta del Papa? È questa, la causa? Un guasto, un trucco?

— No, non credo. La porta ha funzionato, Hunt. Ci ha portato proprio dove il TecnoNucleo ci vuole.

— Il Nucleo? — Quel poco di colore che restava sulla faccia da basset-hound svanisce rapidamente, appena il segretario del PFE capisce chi controlla i teleporter. — Oddio. Oddio. — Hunt barcolla a lato della strada e si siede sull'erba alta. L'abito di pelle scamosciata da alto funzionario e le morbide scarpe nere sembrano fuori posto, qui.

— Dove siamo? — domanda di nuovo.

Respiro a fondo. L'aria profuma di terreno appena arato, di erba tagliata da poco, di polvere di strada, di aspro sentore di mare. — Secondo me, Hunt, siamo sulla Terra.

— Terra. — L'ometto guarda fisso davanti a sé, senza mettere a fuoco niente. — Terra. Non Nuova Terra. Non Gea. Non Terra Due. Non…

— No — lo interrompo. — La Terra. La Vecchia Terra. O il suo duplicato.

— Il suo duplicato.

Mi siedo accanto a lui. Strappo un filo di erba e ne spelo l'estremità. Ha un sapore aspro e noto. — Ricorda il mio rapporto a Gladstone riguardo le storie dei pellegrini su Hyperion? Il racconto di Brawne Lamia? Lei e la mia controparte, il cìbrido… la prima personalità Keats ricuperata… viaggiarono in quello che ritenevato un duplicato della Vecchia Terra. Nell'ammasso Ercole, se ricordo bene.

Hunt guarda in alto, come se potesse giudicare l'esattezza delle mie parole controllando le costellazioni. In alto l'azzurro ingrigisce leggermente e i cirri si diffondono nella volta celeste. — L'ammasso Ercole — mormora Hunt.

— Perché il TecnoNucleo abbia costruito un duplicato e cosa se ne faccia, Brawne non l'ha mai scoperto — dico. — Il primo cìbrido non lo sapeva, o non ne ha parlato.

— Non ne ha parlato — annuisce Hunt. Scuote la testa. — Bene, come diavolo facciamo a uscire di qui? Gladstone ha bisogno di me. Non può… nelle prossime ore bisogna prendere decine di decisioni di importanza vitale. — Balza in piedi, si precipita al centro della strada, perfetta immagine di energia e determinazione.

Continuo a masticare il filo di erba. — Secondo me, da qui non usciamo.

Hunt viene verso di me come se volesse aggredirmi su due piedi. — Ma lei dà i numeri! Niente uscita? Che pazzia! Quali motivi avrebbe, il Nucleo? — Esita, mi guarda. — Non vogliono che lei parli con Gladstone. Lei sa qualcosa e il Nucleo non può rischiare che Gladstone la venga a sapere.

— Forse.

— Tenetevelo e lasciatemi andare! — grida al cielo.

Nessuno risponde. Lontano, dall'altra parte del vigneto, un grosso uccello nero si alza in volo. Credo sia un corvo; ricordo il nome di questa specie estinta come se l'avessi imparato in un sogno.

Dopo un momento Hunt la smette di gridare al cielo e cammina avanti e indietro sulla strada. — Andiamo. Forse c'è un terminex, alla fine della strada.

— Forse — dico; spezzo lo stelo di erba per succhiare il dolce della parte superiore. — Ma da quale parte?

Hunt si gira, guarda la strada scomparire dietro le colline in tutt'e due le direzioni, torna a girarsi. — Siamo usciti dal portale puntando… da questa parte. — Tende il dito. La strada procede in discesa in un boschetto.

— Quanto tempo occorre? — domando.

— Maledizione, che importa? — sbraita lui. — Da qualche parte dobbiamo pur andare!

Trattengo un sorriso. — D'accordo. — Mi alzo, mi spazzolo i calzoni, sento sulla fronte e sul viso il sole caldissimo. Dopo l'oscurità permeata di incenso della basilica, è sconvolgente. L'aria è molto calda e i vestiti sono già umidi di sudore.

Hunt comincia a camminare vigorosamente giù per la collina, pugni chiusi, l'aria dolente migliorata una volta tanto da un'espressione più forte… pura e semplice risolutezza.

Lentamente, senza fretta, continuando a masticare il filo di erba, a occhi socchiusi per la stanchezza, lo seguo.

Il colonnello Fedmahn Kassad urlò e assalì lo Shrike. Il paesaggio surrealista e fuori del tempo, una versione da coreografo minimalista della Valle delle Tombe, modellata in plastica e posta in un gel di aria viscosa, parve vibrare sotto la violenza dell'assalto di Kassad.

Per un istante c'era stata una diffusione di immagini speculari di Shrike… Shrike per tutta la valle, sparsi nel pianoro brullo; ma al grido di Kassad si risolse in un singolo mostro e ora questi si mosse, distese e allungò le quattro braccia, arcuate in modo da accogliere con un caloroso abbraccio di lame e di spine l'assalto del colonnello.

Kassad non sapeva se la dermotuta a energia che indossava, dono di Moneta, l'avrebbe protetto e coadiuvato nel combattimento. Erano passati molti anni da quando lui e Moneta avevano assalito i commandos Ouster di due navette, ma quella volta il tempo era stato dalla loro parte; lo Shrike aveva congelato e scongelato il flusso di istanti, come uno spettatore stufo che giocherellasse col telecomando della piazzuola olografica. Adesso erano fuori del tempo e lo Shrike era il nemico, non un terribile santo patrono. Kassad gridò, abbassò la testa, attaccò, dimentico di Moneta, dimentico dell'impossibile albero di spine che con il suo orrendo pubblico impalato si alzava fino alle nuvole, e neppure consapevole di se stesso, se non come un'arma da combattimento, uno strumento di vendetta.