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I circuiti di sollevamento si accesero, i repulsori inondarono di polvere e di escrementi di colombi la gente sul tetto; infilai la mano nell'onnicomando, mi spostai a destra, sentii la vecchia Scenic sollevarsi, vacillare, cadere, risollevarsi. Virai dritto sulla piazza, rendendomi conto solo in parte che gli allarmi del cruscotto suonavano e che qualcuno era rimasto appeso alla portiera aperta. Scesi in picchiata, sorridendo senza accorgermene quando l'oratore Reynolds del Culto Shrike si affrettò a scansarsi e la folla a disperdersi; poi mi alzai al di sopra della fontana, con una brusca virata a sinistra.

Il passeggero urlante non mollò la presa, ma la portiera cedette, per cui l'effetto fu identico. Notai che si trattava della cicciona, l'istante prima che lei e la portiera colpissero l'acqua da otto metri d'altezza, schizzando Reynolds e la folla. Portai il VEM in quota e ascoltai le unità di sollevamento da mercato nero brontolare contro la mia decisione.

Chiamate irose dal controllo locale del traffico si unirono al coro degli allarmi sul cruscotto; la vettura barcollò, quando la polizia rilevò i comandi di guida, ma con la microcarta toccai di nuovo il diskey e annuii di soddisfazione quando la leva onnicomando riacquistò il controllo del veicolo. Volai sopra la parte più antica e più povera della città, mantenendomi a poca distanza dai tetti e scansando guglie e torri con orologio, per tenermi al di sotto del campo radar della polizia. In una giornata normale, gli agenti addetti al controllo del traffico, su sollevatori personali e bastoni skimmer, sarebbero sciamati su di me e mi avrebbero già bloccato; ma a giudicare dalla folla nelle vie e dai tumulti intravisti nelle vicinanze dei terminex pubblici, quella non sembrava proprio una giornata normale.

La Scenic mi avvertì che la sua resistenza in volo ormai si contava in secondi; il repulsore di dritta cedette con uno schianto nauseante; mi diedi da fare con l'onni e col pedale del gas per far scendere la vecchia carretta in un piccolo parcheggio fra un canale e un grosso edificio sporco di fuliggine. Il posto era almeno a dieci chilometri dalla piazza in cui Reynolds aveva sobillato la folla, per cui mi parve più sicuro affrontare i rischi a terra… anche se al momento non avevo molta scelta.

Volarono scintille, il metallo si lacerò, parti del pannello posteriore, alettoni e il pannello d'accesso frontale si staccarono dal resto del veicolo… ma atterrai e mi fermai a due metri dal muro prospiciente il canale. Mi allontanai dalla Vikken, con tutta la noncuranza che mi fu possibile.

Le vie erano ancora sotto il controllo della folla — non ancora marmaglia tumultuante — e i canali erano un guazzabuglio di piccole imbarcazioni, perciò entrai nel più vicino edificio pubblico, per togliermi di vista. L'edificio era in parte museo, in parte biblioteca e in parte archivio; mi piacque a prima vista… e a primo fiuto, perché c'erano migliaia di libri stampati, alcuni davvero antichi, e niente ha il meraviglioso profumo dei vecchi libri.

Giravo nell'anticamera e guardavo i titoli chiedendomi oziosamente se vi fossero le opere di Salmud Brevy, quando mi si accostò un vecchietto raggrinzito in completo di lana e fibroplastica fuori moda. — Signore — disse — è da tanto che non abbiamo il piacere della sua compagnia.

Gli rivolsi un cenno, sicuro di non averlo mai incontrato, di non avere mai visitato quell'edificio.

— Tre anni, no? Almeno tre anni! Dio, come vola, il tempo. — La voce dell'ometto era poco più di un bisbiglio, il tono smorzato di chi ha trascorso nelle librerie la maggior parte della vita, ma non si poteva negare che contenesse un sottofondo di entusiasmo. — Sono sicuro che vorrà andare direttamente alla collezione — disse, facendosi da parte come per lasciarmi il passo.

— Sì — dissi, con un lieve inchino. — Dopo di lei.

L'ometto (ero quasi sicuro che fosse un archivista) parve contento di farmi strada. Chiacchierò di nuove acquisizioni, di recenti stime, di visite di studiosi della Rete, mentre attraversavamo una serie di stanze tutte piene di libri: alte cripte di libri disposti su diversi piani, intimi corridoi tappezzati di mogano e di libri, vasti locali dove il rumore dei nostri passi rimbalzava contro lontane pareti di libri. Non vidi nessuno, durante il percorso.

Attraversammo una passerella piastrellata, con ringhiere di ferro battuto, sopra uno stagno di libri dove campi di contenimento azzurri proteggevano dall'aria rotoli, pergamene, mappe che minacciavano di sbriciolarsi, manoscritti miniati e antichi libri a fumetti. L'archivista aprì una porta, più spessa di molti ingressi a tenuta stagna, e ci trovammo in una stanzetta priva di finestre dove pesanti tendaggi quasi nascondevano rientranze foderate di volumi antichi. Sul tappeto persiano pre-Egira c'era una singola poltrona in pelle; una campana di vetro conteneva alcuni frammenti di pergamena sotto vuoto.

— Intende pubblicare presto, signore? — domandò l'ometto.

— Prego? — Diedi le spalle alla campana di vetro. — Oh… no — risposi.

L'archivista si lisciò il mento. — Voglia scusare la franchezza, signore, ma è uno spreco terribile, se non pubblica. Dalle nostre discussioni nel corso degli anni, per quanto scarse, è chiaro che lei è, se non il migliore, uno dei migliori studiosi di Keats, in tutta la Rete. — Sospirò e arretrò di un passo. — Mi scusi se l'ho detto, signore.

Lo fissai. — È vero — dissi. A un tratto avevo capito chi pensava che fossi e perché quella persona era venuta lì.

— Immagino che vorrà stare da solo, signore.

— Se non le spiace.

L'archivista mi rivolse un breve inchino, uscì dalla sala e lasciò socchiusa la pesante porta. L'unica luce proveniva da tre sottili lampade incassate nel soffitto: perfetta per la lettura, ma non tanto forte da rovinare l'atmosfera da cattedrale della saletta. L'unico rumore era quello dei passi dell'archivista che si allontanava. Mi accostai alla campana e posai le mani lungo i bordi, attento a non sporcare il vetro.

Evidentemente il primo cìbrido con la personalità ricuperata di Keats, "Johnny", era venuto lì spesso, durante i pochi anni di vita nella Rete. Ora ricordavo un accenno alla biblioteca su Vettore Rinascimento, nel racconto di Brawne Lamia. La donna l'aveva seguito fin lì, nei primi tempi delle indagini sulla "morte" di Johnny. In seguito, quando Johnny era stato ucciso davvero, a parte la personalità registrata nell'iterazione Schrön della donna, Brawne Lamia aveva visitato quell'edificio. Aveva citato due poesie che il primo cìbrido ogni giorno era andato a guardare nel tentativo di capire la ragione propria della esistenza… e della morte.

Quei due manoscritti originali erano sotto la campana. Il primo era, secondo me, una poesia d'amore piuttosto melensa che cominciava con il verso: "Il giorno è andato, andate tutte le sue dolcezze!". Il secondo era migliore, per quanto contaminato dalla morbosità romantica di un'età eccessivamente romantica e morbosa:

Questa mano viva, ora calda e in grado
d'afferrare con gioia, se fosse fredda
e gelida nel silenzio della tomba,
tormenterebbe i tuoi giorni e gelerebbe le notti sognanti
tanto da farti desiderare d'avere il cuore esangue
perché nelle mie vene scorra ancora la rossa vita
e la tua coscienza sia in pace… vedi, eccola qui…
a te la tendo…

Brawne Lamia l'aveva considerato quasi un messaggio personale trasmessole dall'amante ormai morto, il padre del figlio non ancora nato. Fissai la pergamena, chinando il viso tanto da annebbiare con l'alito il vetro.

Non era un messaggio dal passato per Brawne e neppure un lamento contemporaneo per Fanny, l'unico e vero desiderio del mio cuore. Fissai le parole sbiadite (scrittura a mano eseguita con cura, lettere ancora ben leggibili attraverso gli abissi del tempo e l'evoluzione della lingua) e ricordai di averle scritte nel dicembre del 1819… un brano di poesia scribacchiato sulla pagina di una "fiaba" satirica appena iniziata, Il cappello a sonagli, o le gelosie, un orribile esempio di umorismo un po' assurdo, giustamente abbandonato dopo un breve periodo di divertimento.