Изменить стиль страницы

Lei rise. Non aveva dimenticato quanto s’erano divertiti studiando piccole costruzioni capaci di reggere anche nel caso che qualcuno ne demolisse le più ovvie strutture portanti. Peter, al contrario, era stato un demonio d’abilità nel costruire capanne dall’apparenza solidissima che franavano addosso al primo abbastanza incauto da penetrarvi. Peter era stato un punto focale della loro infanzia, qualcosa che li aveva uniti.

— Peter è cambiato — disse lei.

Ender scrollò le spalle. — Non voglio parlare di lui.

— D’accordo.

La fanciulla salì sulla zattera, con movimenti assai più incerti di quelli di Ender. Lui usò una pagaia per manovrare intorno al molo e poi prese a remare verso il centro del laghetto privato. Nel notare quanto fosse abbronzato Valentine lo disse. — E ti sei anche irrobustito molto — aggiunse.

— Alla Scuola di Guerra si fa molto esercizio fisico, ma l’abbronzatura l’ho comprata qui. Passo le giornate in acqua. Quando nuoto è come essere di nuovo lassù, in gravità zero. Senza peso si può volare, e ne sento la mancanza. Inoltre, qui sul lago, tutto il territorio che mi vedo attorno è ricurvo all’insù.

— Come sul fondo di una tazza.

— Ho vissuto in una tazza per quattro anni.

— E ora noi siamo due sconosciuti?

— Lo siamo, Val?

— No — disse lei. Allungò una mano e gli toccò un polpaccio. Poi d’improvviso gli fece il solletico dietro il ginocchio, proprio dove lui era sempre stato più sensibile.

Ma quasi all’istante lui le bloccò il polso. Aveva una stretta forte, benché le sue mani fossero più piccole di quelle di lei, e per un attimo nelle pupille gli brillò una luce strana, pericolosa. Poi si rilassò. — Ah, già — disse. — Avevi l’abitudine di farmi il solletico. Sei sempre così dispettosa?

— No, non più — mormorò lei, ritraendo la mano.

— Ti va di nuotare?

Per tutta risposta Val si calò giù dal bordo della zattera. L’acqua era limpida e pulita, senza alcun odore di clorina. Per un poco nuotò attorno, poi risalì sulla zattera e pigramente si distese sotto la calda luce del sole. Una vespa ronzò su di lei e atterrò a un palmo di distanza dalla sua testa. La fanciulla non si mosse. Sapeva che l’insetto era lì, e che solitamente questo l’avrebbe spaventata. Ma non oggi. Lasciamo che vada in zattera anche lei, e che si abbronzi al sole come sto facendo io.

Poi la zattera ebbe un sussulto. Lei si volse e vide Ender rialzare con calma la mano da dove l’aveva abbattuta e gettare in acqua la vespa. — Questi sono insetti dannati — disse il ragazzo. — Ti pungono anche senza esser stati provocati. — Le sorrise. — Ed è così che ci insegnano a difenderci: strategia preventiva. Io sono diventato un asso nelle loro battaglie simulate. Il miglior soldato che abbiamo mai avuto.

— Chi poteva aspettarsi di meno? Sei un Wiggin.

— Già. Qualunque cosa questo significhi.

— Significa che tu puoi spingere il mondo in una certa direzione, se spingi nel posto adatto e nel momento adatto — disse Val, e gli rivelò ciò che Peter e lei stavano facendo.

— Quanti anni ha Peter? Quattordici? E pensa già di conquistare il mondo?

— Crede d’essere Alessandro il Grande. E perché non potrebbe esserlo? Perché anche tu non potresti esserlo?

— Non potremmo essere tutti e due Alessandro.

— Due facce della stessa medaglia. E io, il metallo che ne compone l’interno. — Ma subito Val dovette chiedersi fino a che punto lei fosse in posizione centrale. Aveva condiviso tante esperienze con Peter in quei pochi anni che perfino mentre lo disprezzava si rendeva conto di capirlo. Ender invece fino a quel momento era stato soltanto un ricordo: un ragazzino fragile e delicato che aveva bisogno della sua protezione. Non questo giovinetto abbronzato e dallo sguardo freddo, che schiaccia le vespe con le mani. Forse io e Peter e lui siamo fatti della stessa pasta, lo siamo sempre stati, e abbiamo voluto crederci diversi per orgoglio e per invidia.

— Il guaio con le medaglie è che la luce del sole può illuminare soltanto una faccia. L’altra sta all’ombra.

E proprio adesso tu credi di essere tornato all’ombra. - Vogliono che io ti incoraggi a proseguire gli studi.

— Non sono studi, sono gare. Nient’altro che gare, dall’inizio alla fine, solo che loro cambiano le regole quando e come gli salta in ticchio di farlo. — Mosse le mani a dita aperte. — Hai mai provato a far ballare una marionetta appesa ai fili?

— Puoi tirare anche tu gli stessi fili che ti legano.

— Soltanto se loro rilassano le dita. Soltanto se pensano che così ti stanno ancora usando. No, è troppo duro, è un gioco che non voglio giocare più. Appena comincio a sentirmi tranquillo, appena m’illudo di riuscire a padroneggiare le cose, mi piantano un altro coltello fra le costole. Da quando sono qui ho perfino degli incubi… sogno di essere in sala di battaglia, solo che invece di lasciarmi volare senza peso loro mi costringono a combattere nella gravità, e le cambiano continuamente direzione, così non riesco mai ad atterrare dove voglio, mai ad andare dove ho deciso di andare. E allora li supplico di lasciarmi uscire dalla porta, ma loro mi parlano solo con le luci del loro computer, mi risucchiano lì dentro. Mi trasformano in un ingranaggio di quella macchina insensata.

Val sentì l’ira della sua voce, e la sentì diretta anche contro di lei. — Già. Si presume che io sia qui per questo. Per spingerti di nuovo nella loro macchina.

— Io non volevo incontrarti.

— Me l’hanno detto.

— Avevo paura di scoprire che ti voglio ancora bene.

— Questo era ciò che io speravo.

— La mia paura, la tua speranza… altri due fili, per loro.

— Non è del tutto vero, Ender. Siamo troppo giovani, forse, ma non senza potere. Abbiamo giocato tanto secondo le loro regole che questa è diventata la nostra partita. — Ebbe una risatina. — Io faccio addirittura parte di una commissione presidenziale. Peter non è riuscito a mandarla giù.

— Loro non mi permettono contatti con la videostampa. Qui non c’è neppure un computer, a parte un vecchio barattolo che si occupa degli impianti di sicurezza e degli elettrodomestici. Roba istallata un secolo fa, quando facevano computer che non s’inserivano sui satelliti. Mi hanno tolto la mia orda, mi hanno tolto il banco, e la sai una cosa? Non è che me ne importi molto.

— Tu sai star bene in compagnia di te stesso.

— Io sono soltanto in compagnia dei miei ricordi.

— Forse è questo che siamo: i nostri ricordi.

— No. I miei ricordi degli altri. Degli sconosciuti. Degli Scorpioni.

Valentine rabbrividì, come all’improvviso passaggio di una brezza fredda. — Io ho smesso di guardare i video sugli Scorpioni. Sono sempre gli stessi.

— Io li studiavo per ore. Il modo in cui le loro navi si muovono nello spazio. E ti dirò una cosa strana, che ho capito veramente solo standomene qui al sole sul lago: tutte le battaglie in cui gli Scorpioni e gli uomini si scontrano faccia a faccia, sono roba della Prima Invasione. Mentre in ogni scena ripresa durante la Seconda Invasione, con i nostri soldati nell’uniforme della F.I., gli Scorpioni che vi compaiono sono già tutti morti. Non uno che si veda combattere o muoversi. E la battaglia di Mazer Rackham… non è in circolazione una sola ripresa di quell’avvenimento.

— Forse usò un’arma segreta.

— No, no, non sto a preoccuparmi del come li abbia uccisi. È un problema di censura ingiustificata: non vogliono dirmi niente degli Scorpioni, e nello stesso tempo pretendono che un giorno o l’altro io vada a combatterli. Io mi sono battuto già molte volte in vita mia, talvolta per gioco e talvolta… non per gioco. E ogni volta che sono riuscito a vincere è stato perché potevo capire i processi mentali dell’avversario da quello che facevano. Riuscivo a stabilire cosa pensavano che io avrei fatto, e come immaginavano che sarebbe andata la battaglia. E giocavo su questo. Oh, ero diventato un esperto. Ottenere un risultato basandosi su ciò che pensano gli altri.