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Parte terza

La tempesta

14

La gente è al buio, non sa cosa fare

Avevo una lanterna, oh ma si è spenta anche quella.

Tendo una mano. Spero che la tenderai anche tu.

Come vorrei stare al buio con te.

GREG BROWN, In the Dark With You

Alle cinque del mattino, nel parcheggio dell’aeroporto di Minneapolis, cambiarono vettura. Salirono fino all’ultimo piano, dove c’è un parcheggio a cielo aperto.

Shadow si liberò di manette, ceppi e uniforme arancione e infilò tutto nel sacchetto di carta marrone che aveva temporaneamente contenuto i suoi effetti personali, lo richiuse e lo gettò in un cestino dell’immondizia. Aspettavano da una decina di minuti quando un giovanotto con il tronco a botte sbucò da un’uscita dell’aeroporto e li raggiunse. Stava mangiando un sacchetto di patatine di Burger King. Shadow lo riconobbe immediatamente: aveva preso posto sul sedile posteriore della sua auto, quando erano usciti dalla House on the Rock per andare al ristorante, e il suono che aveva prodotto canticchiando era stato così profondo da far vibrare la macchina. Adesso sfoggiava una lunga barba bianca che lo faceva sembrare più vecchio.

Il giovanotto si ripulì le mani sui jeans e poi ne tese una a Shadow. «Ho saputo della morte del Padre» disse. «Pagheranno per questo, pagheranno caro.»

«Wednesday tuo padre?» domandò Shadow.

«Il Padre Universale» rispose l’altro. Aveva una voce profonda, gutturale. «Diglielo, dillo a tutti che nel momento del bisogno la mia gente ci sarà.»

Chernobog si liberò di un filo di tabacco che gli si era infilato tra i denti e lo sputò sul fango ghiacciato. «E quanti sareste in tutto? Dieci? Venti?»

La barba dell’uomo a botte scintillò. «Dieci di noi non valgono forse come cento dei loro? Chi può tenere testa alla mia gente, in battaglia? Comunque ai margini delle città viviamo numerosi. Qualcuno vive sulle montagne. Ce ne sono altri nelle Catskills, qualcuno anche nei parchi dei divertimenti in Florida. Tengono le loro asce affilate. Accorreranno a un mio richiamo.»

«Allora chiamali, Elvis» disse il signor Nancy. O perlomeno a Shadow sembrò che dicesse Elvis. Nancy si era cambiato e al posto dell’uniforme da sceriffo indossava un cardigan pesante, marrone, pantaloni di velluto a coste e mocassini di cuoio. «Chiamali. È quello che avrebbe desiderato il vecchio bastardo.»

«L’hanno tradito. L’hanno ammazzato. Ho riso dei suoi discorsi, invece mi sbagliavo. Nessuno di noi è al sicuro» disse l’uomo con un nome simile a Elvis. «Potete contare su di noi.» Diede a Shadow una pacca gentile sulla spalla che lo mandò quasi a gambe all’aria. Era come essere sfiorati delicatamente da una di quelle enormi sfere che vengono usate per le demolizioni.

Chernobog si stava guardando intorno. «Scusate la domanda, quale sarebbe il nostro nuovo mezzo di trasporto?»

L’uomo a botte indicò un pulmino. «Eccolo lì» disse.

Chernobog sbuffò incredulo. «Quello?»

Era un pulmino Volkswagen degli anni Settanta. Sul lunotto posteriore c’era la decalcomania di un arcobaleno.

«È un ottimo mezzo. Ed è l’ultima cosa che si aspettano di vedervi guidare.»

Chernobog fece il giro del pulmino. Poi cominciò a tossire, una tosse cavernosa da vecchio, da fumatore alle cinque del mattino. Si raschiò la gola, sputò, si massaggiò il petto per alleviare il dolore. «Sì. L’ultimo dei mezzi di trasporto sospettabili. Che cosa succede quando ci ferma la polizia in cerca di hippy e marijuana? Eh? Non siamo qui per un viaggio psichedelico, dobbiamo essere il più anonimi possibile.»

L’uomo con la barba aprì una portiera del pulmino. «Se vi fermano, danno un’occhiata, vedono che non siete hippy e vi lasciano andare. È un travestimento perfetto. Ed è l’unica vettura che sono riuscito a trovare con così poco preavviso.»

Chernobog sembrava intenzionato a polemizzare ancora, ma il signor Nancy intervenne con i suoi modi affabili. «Elvis, ci sei stato di grande aiuto. Te ne siamo grati. La nostra macchina però deve tornare a Chicago.»

«La lasceremo a Bloomington» rispose l’altro. «Se ne occuperanno i lupi. Non preoccupatevene.» Si rivolse a Shadow. «Ti faccio nuovamente le mie condoglianze e condivido il tuo dolore. Buona fortuna, se la veglia funebre toccherà a te, hai tutta la mia ammirazione e la mia pietà.» Gli strinse una mano con la sua, sembrava un guantone da baseball. Shadow sentì un gran male. «Diglielo al cadavere, quando lo vedi. Digli che Alviss figlio di Vindalf non cederà.»

Il pulmino odorava di patchouli, di incenso e tabacco. L’interno delle portiere e il pavimento erano rivestiti con una moquette rosa pallido.

«Chi era quello?» chiese Shadow mentre ingranava la prima per scendere dalla rampa.

«Te l’ha detto, è Alviss figlio di Vindalf. Il re dei nani. Il più grosso, il più forte e il più autorevole esponente del popolo dei nani.»

«Ma non è un nano» insistette Shadow. «E alto almeno uno e ottantacinque.»

«Il che fa di lui un gigante, per il suo popolo» disse Chernobog da dietro. «Il nano più alto d’America.»

«Cos’era quella storia della veglia?» chiese Shadow.

I due uomini non risposero. Shadow gettò un’occhiata al signor Nancy che fissava ostinatamente dal finestrino.

«Dunque? Ha parlato di una veglia. Avete sentito anche voi.»

Fu Chernobog a rompere il silenzio. «Non sei obbligato a farlo.»

«Fare cosa?»

«La veglia. Alviss parla troppo. Tutti i nani parlano troppo. Non pensarci neanche. Meglio che lasci perdere.»

Andare verso sud era come viaggiare nel tempo. C’era sempre meno neve, e il mattino dopo era scomparsa del tutto, quando entrarono in Kentucky. Lì l’inverno era finito, e stava già arrivando la primavera. Shadow cominciò a fantasticare su possibili equazioni… forse a ogni cento chilometri percorsi verso sud corrispondeva un giorno nel futuro.

Ne avrebbe parlato ai suoi compagni di viaggio, se il signor Nancy non fosse stato addormentato sul sedile accanto al suo mentre Chernobog, dietro, russava sonoramente.

Il tempo gli sembrava una costruzione mentale mutevole, in quel momento, un’illusione prodotta da lui stesso, guidando. Scoprì di essere via via sempre più consapevole, quasi dolorosamente consapevole, della presenza degli uccelli e di altri animali: vedeva i corvi sul ciglio della strada, o sul percorso del pulmino, che banchettavano con gli animali investiti; stormi di uccelli che attraversavano il cielo in formazioni che sembravano figure decifrabili, gatti che, sdraiati in un prato o appollaiati su un recinto, li guardavano passare.

Chernobog si svegliò sbuffando e si mise lentamente seduto. «Ho fatto uno strano sogno» disse. «Ho sognato di essere Bielebog, in realtà. Da sempre il mondo immagina che siamo due, il chiaro e l’oscuro, invece adesso che siamo entrambi vecchi scopro di esserci stato sempre e solo io, davo i doni alla gente e poi glieli portavo via.» Staccò il filtro da una Lucky Strike, infilò la sigaretta tra le labbra e l’accese.

Shadow abbassò il finestrino.

«Non ha paura del cancro ai polmoni?» gli chiese.

«Io sono il cancro. Non ho paura di me stesso.»

Nancy parlò. «Quelli come noi non si ammalano di cancro. Non ci viene l’arteriosclerosi né il morbo di Parkinson o la sifilide. Siamo duri da ammazzare.»

«Wednesday l’hanno ammazzato» disse Shadow.

Si fermò a fare benzina e poi, sebbene fosse molto presto, parcheggiò vicino a un ristorante per fare colazione. Non appena entrarono il telefono pubblico all’ingresso cominciò a squillare.

Fecero l’ordinazione a una signora anziana con un sorriso preoccupato che al loro arrivo stava leggendo un’edizione economica di What My Heart Meant di Jenny Kerton. La donna sospirò, andò a rispondere e disse «Sì». Poi si guardò alle spalle e aggiunse: «Sissignore. Sembra che siano arrivati. Aspetti un momento» e si avvicinò al signor Nancy.