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«Chiediglielo direttamente» disse. I lampi di un temporale estivo illuminarono per un momento il paesaggio da un orizzonte all’altro.

C’erano grandi alture rocciose, creste e vette di arenaria, e Shadow cominciò a scalare la più vicina. Aveva il colore dell’avorio antico. Quando si afferrò a un appiglio, sentì che gli si sbriciolava tra le dita. Sono ossa, pensò. Non è roccia. E una torre fatta di vecchie ossa.

Era un sogno e nei sogni non si ha scelta; o non ci sono decisioni da prendere, oppure le decisioni sono state già prese molto prima che il sogno avesse inizio. Shadow continuò ad arrampicarsi. Gli facevano male le mani, le ossa si spezzavano con schiocchi netti frantumandosi sotto i suoi piedi scalzi. Il vento lo strattonava ma lui si strinse alla parete e continuò a scalare la torre.

Era fatta di un unico tipo d’osso, sempre quello, all’infinito, di forma arrotondata. Immaginò che potesse trattarsi di uova di un uccello gigantesco, ma un altro lampo gli raccontò una storia diversa: quelle forme tondeggianti avevano orbite, e denti digrignati in un sorriso senza allegria.

Da chissà dove giungevano i richiami degli uccelli. La pioggia gli bagnava la faccia.

Si trovava a decine di metri da terra, attaccato alla parete di una torre di teschi, mentre fulmini e saette squarciavano il buio sulle ali di quegli uccelli dalle lunghe ombre che volavano in cerchio: animali enormi e neri, simili a condor, con un collare di piume bianche. Erano uccelli grandissimi e sgraziati, spaventosi d’aspetto, e il battito delle loro ali risuonava nella notte con il fragore del tuono.

Volavano in cerchio intorno alla torre.

Devono avere un’apertura alare di almeno sei metri, pensò Shadow.

Poi il primo uccello si staccò dal gruppo per avventarsi su di lui. Lanciava saette azzurre dalle ali. Shadow si infilò in una fessura tra i teschi, sotto lo sguardo di quelle orbite vuote, tra i sorrisi di quelle dentature d’avorio, ma non si fermò, riprese ad arrampicarsi sulla montagna di teschi, tagliandosi con le schegge d’osso acuminate, in preda a repulsione e terrore, in preda a una grande soggezione.

Un altro uccello gli si lanciò addosso e un artiglio grande come una mano gli si conficcò nel braccio.

Si protese cercando di strappargli una piuma — perché se avesse fatto ritorno alla sua tribù senza la piuma dell’uccello del tuono sarebbe caduto in disgrazia, non sarebbe mai diventato uomo — ma l’uccello del tuono si alzò in volo sfuggendo alla sua presa. Poi si allontanò sospinto dal vento. Shadow riprese a salire.

Devono essere decine di migliaia di teschi, pensò. Mille migliaia. E non sono tutti umani. Raggiunse infine la sommità della montagna mentre i grandi uccelli, gli uccelli del tuono, volavano in cerchio lentamente, navigando sulle raffiche della tempesta con minuscoli aggiustamenti delle ali.

Sentì una voce, la voce dell’uomo-bufalo, che superava l’ululato del vento, gli diceva che quei teschi appartenevano a…

La torre cominciò a sgretolarsi e il più grande degli uccelli, con gli occhi di un bianco-azzurro accecante come il fulmine precipitò su Shadow in un impeto di tuono e lui cadeva, crollava insieme alla torre di teschi…

Stava squillando il telefono. Shadow non sapeva nemmeno che fosse stato ricollegato. Intontito, turbato dal sogno, alzò il ricevitore.

«Ma cosa cazzo fai?» urlò Wednesday, furibondo come non l’aveva mai sentito. «Cosa cazzo credi di fare, porca puttana?»

«Dormivo» rispose Shadow stupidamente.

«A cosa cazzo serve metterti al sicuro in un posto come Lakeside se poi tu sollevi un vespaio che non sfuggirebbe neanche a un cadavere?»

«Ho sognato gli uccelli del tuono… E una torre. Teschi…» Raccontare il sogno gli sembrava di fondamentale importanza.

«Lo so che cosa stavi sognando. Tutti lo sanno. Dio Onnipotente. A cosa cazzo serve nasconderti se poi ti fai pubblicità in questa maniera?»

Shadow non disse niente.

All’altro capo della linea ci fu una pausa di silenzio, poi Wednesday disse: «Sarò lì in mattinata». Sembrava che la rabbia gli fosse passata. «Andiamo a San Francisco. I fiori nei capelli sono opzionali.» E chiuse la comunicazione.

Shadow appoggiò il telefono sul tappeto e rigidamente si tirò su. Erano le sei del mattino e fuori faceva ancora buio. Si alzò dal divano, rabbrividiva. Il vento ululava sul lago gelato. E qualcuno vicino a lui, separato soltanto da una parete, piangeva. Era certamente Marguerite Olsen; i suoi singhiozzi soffocati erano insistenti e spezzavano il cuore.

Shadow andò in bagno, poi in camera da letto, e chiuse la porta per non sentire il pianto della donna. Il vento ululava e gemeva come se anche lui cercasse un bambino perduto.

A gennaio il clima di San Francisco era intempestivamente caldo, così caldo che Shadow aveva il collo sudato. Wednesday indossava un abito blu scuro e un paio d’occhiali dalla montatura dorata che gli davano l’aspetto di un avvocato dell’ambiente dello spettacolo.

Stavano camminando lungo Haight Street. La gente di strada, le prostitute e i perdigiorno che li guardavano passare non agitarono il bicchiere di carta per l’elemosina e non chiesero né offrirono niente.

Wednesday aveva le mascelle contratte, Shadow si era accorto subito che era ancora arrabbiato. Quando la piccola Lincoln nera si era fermata davanti alla casa, quel mattino, non aveva fatto domande. Durante il tragitto fino all’aeroporto nessuno dei due aveva parlato. Scoprire che Wednesday aveva un posto in prima classe e che lui era in classe turistica era stato un sollievo.

Adesso era tardo pomeriggio. Shadow non tornava a San Francisco da quando era bambino, aveva visto la città soltanto nei film e rimase sconcertato nel trovarla così familiare, con le sue case colorate e originali, le colline, così unica e diversa da qualsiasi altro posto.

«È quasi impossibile credere che questa città si trovi nello stesso paese di Lakeside» disse.

Wednesday gli lanciò un’occhiataccia. Poi disse: «Non è così, infatti. San Francisco non si trova nello stesso paese di Lakeside più di quanto New Orleans non si trovi nello stesso paese che ospita New York, o Miami in quello di Minneapolis».

«Ah sì?»

«È fuor di dubbio. Magari condividono alcuni simboli culturali — i soldi, il governo federale, gli svaghi — e ovviamente il paese è lo stesso, ma quel che crea l’illusione che si tratti di un’unica nazione sono i dollari, il Tonight Show e i McDonald’s, nient’altro.» Si stavano avvicinando a un parco alla fine della strada. «Sii gentile con la signora che stiamo per incontrare. Ma non troppo.»

«Non preoccuparti.»

Entrarono nell’erba.

Una ragazzina, non poteva avere più di quattordici anni, con i capelli tinti di verde, arancio e rosa, rimase a fissarli mentre le passavano davanti. Sedeva accanto a un cane, un bastardo che per collare e guinzaglio aveva un pezzo di corda. Sembrava più affamata dell’animale. Il bastardo abbaiò allegro e scodinzolò.

Shadow le diede un dollaro. Lei lo guardò come se non lo riconoscesse. «Compra da mangiare al cane» le suggerì. Lei annuì e sorrise.

«Mettiamo le cose in chiaro» disse Wednesday, «devi essere molto cauto con la signora che stiamo per incontrare. Se le prendesse un capriccio per te sarebbe un guaio.»

«È la tua fidanzata?»

«No, nemmeno per tutti i giocattolini di plastica che producono in Cina» rispose Wednesday con garbo. La rabbia sembrava dissipata, o forse era solo stata messa da parte per il futuro. Shadow aveva il sospetto che fosse proprio la rabbia il motore di Wednesday.

Seduta sull’erba sotto un albero c’era una donna che aveva stesa davanti a sé una tovaglia di carta coperta di una gran quantità di contenitori di plastica.