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Nessuno fino a Laura, perlomeno.

Il signor Ibis aveva preparato la cena: riso e verdure bollite per sé e Jacquel. «Non mangio carne» spiegò «e Jacquel si procura il suo fabbisogno di proteine durante il lavoro.» Accanto al piatto di Shadow c’era una confezione di pollo fritto KFC e una bottiglia di birra.

Nel cartone c’era più pollo di quanto Shadow potesse mangiare e alla fine, dopo aver tolto la pelle e l’impanatura e ridotto la carne a pezzettini, diede quel che restava alla gatta.

«In prigione c’era un tizio che si chiamava Jackson» disse mentre mangiava, «lavorava nella biblioteca. Mi ha raccontato che hanno cambiato in KFC il nome Kentucky Fried Chicken perché quello che cucinano non è vero pollo. È una specie di mutante geneticamente modificato, una gigantesco millepiedi senza testa, un’infinità di segmenti composti da zampe, petto e ali che viene nutrito attraverso tubicini. Secondo Jackson è per questo che il governo non gli ha più fatto usare la parola pollo.»

Il signor Ibis inarcò un sopracciglio. «Credi che sia vero?»

«No. Secondo il mio vecchio compagno di cella, Low Key, hanno cambiato nome perché la parola fried, fritto, era diventata pericolosa. Forse vogliono che la gente creda che il pollo si sia cucinato da solo.»

Dopo cena Jacquel si ritirò per scendere all’obitorio. Ibis andò nello studio a scrivere e Shadow si trattenne ancora un po’ in cucina sorseggiando birra e nutrendo la gattina scura con i pezzetti di pollo. Finiti la birra e il pollo lavò piatti e posate, li mise sullo scolapiatti ad asciugare e salì di sopra.

Quando entrò nella stanza la gattina stava già dormendo acciambellata ai piedi del letto come una mezza luna pelosa. Nel cassetto di mezzo della toletta trovò alcuni pigiama a righe di cotone. Sembravano vecchi di almeno settant’anni ma profumavano di fresco e pulito: ne indossò uno che gli calzava, come l’abito nero, alla perfezione.

Sul tavolino accanto al letto c’era una pila di "Reader’s Digest", tutti antecedenti il marzo del 1960. Il carcerato addetto alla bilioteca, Jackson, lo stesso che spacciava per vera la storia del pollo mutante del Kentucky Fried Chicken, e che gli aveva raccontato che il governo trasferiva i prigionieri politici nei campi di concentramento nel nord della California su treni merci con i vagoni tutti neri nel cuore della notte, gli aveva anche detto che la Cia usava le redazioni del "Reader’s Digest" come copertura delle loro filiali sparse in tutto il mondo. Secondo lui le redazioni del "Reader’s Digest" erano in realtà tutti uffici della Cia.

"Ho sentito una barzelletta" disse la voce del defunto Wood nel ricordo. "Come facciamo a essere sicuri che la Cia non fosse coinvolta nell’assassinio di Kennedy?"

Shadow socchiuse la finestra abbastanza per far entrare un po’ d’aria e dare la possibilità alla gatta di uscire sul balcone.

Accese la lampada sul comodino e, per distogliere la mente dai fatti accaduti negli ultimi giorni, decise di leggere, scegliendo a questo scopo gli articoli più noiosi. A metà di Io sono il pancreas di John, si accorse che si stava addormentando. Fece appena in tempo a spegnere la luce e ad appoggiare la testa sul cuscino che era già crollato nel sonno.

In seguito non fu più in grado di ricostruire la sequenza e i dettagli del sogno: qualsiasi tentativo di ricordare ebbe soltanto l’effetto di produrre un groviglio intricato di immagini. C’era una ragazza. L’aveva incontrata chissà dove, e adesso stavano attraversando un ponte sopra un piccolo lago nel centro di una città. Il vento increspava la superficie dell’acqua formando ondine bordate di bianco che a Shadow sembravano minuscole mani protese verso di lui.

«Laggiù» disse la donna. Indossava una gonna leopardata che si alzava al vento lasciando scoperta la zona di pelle sopra le calze che era chiara e morbida e nel sogno sul ponte, davanti a Dio e al mondo, Shadow si mise in ginocchio e affondò la testa nel suo inguine inspirando l’intossicante afrore femminile. Si rese conto di avere un’erezione anche nella vita reale, un’erezione pulsante e mostruosa come quelle che gli capitavano durante la pubertà.

Si ritrasse e guardò in alto senza tuttavia riuscire a vedere la ragazza in faccia. Ma la sua bocca cercava quella di lei e le sue labbra erano morbide e le aveva preso i seni nelle mani e accarezzava la sua soffice pelle serica, scostando la pelliccia che le copriva i fianchi, scivolando dentro quella meravigliosa fenditura che era calda e bagnata, aperta per lui, come un fiore che gli sbocciava in mano.

La donna si strinse a lui facendo le fusa estatica, allungando una mano sul suo pene, stringendoglielo. Lui allontanò le lenzuola e le fu sopra, aprendole con una mano le cosce, mentre lei lo guidava dentro di sé con una sola magica spinta…

Adesso era insieme a lei nella sua cella in prigione, e la stava baciando con desiderio. Lei lo stringeva tra le braccia, lo avvinghiava con le gambe perché non si potesse allontanare, non potesse scivolare fuori nemmeno se l’avesse voluto.

Non aveva mai baciato labbra così morbide. Non aveva mai immaginato che esistesse, una simile morbidezza. La lingua, però, era come carta vetrata contro la sua.

«Chi sei?» le chiese.

Lei non rispose, lo respinse sul letto e con un movimento flessuoso gli si sedette sopra e cominciò a cavalcarlo. No, non a cavalcarlo, a insinuarsi in lui con una serie di morbidi movimenti ondulatori, via via sempre più potenti, colpi e spinte e ritmi che si frangevano contro il corpo e la mente come sulla riva del lago si frangono le onde mosse dal vento. Le sue unghie erano come aghi quando affondarono nei fianchi e lo graffiarono; non provò dolore ma soltanto piacere, ogni sensazione veniva trasformata da un processo alchemico in attimi di puro piacere.

Lottò per ritrovare se stesso, lottò per parlare, la testa spazzata dai venti del deserto sulle dune.

«Chi sei?» ripeté, annaspando nel tentativo di tirar fuori la voce.

Lei lo fissò con i suoi occhi color ambra scura, poi si abbassò e lo baciò sulla bocca con passione, con una profondità e un abbandono tali che quasi quasi, lì sul ponte sul lago, nella sua cella in prigione, nel letto di un’impresa di pompe funebri di Cairo, Shadow fu sul punto di venire. Si abbandonò alla sensazione come un aquilone si lascia portare dall’uragano, cavalcandolo, nella speranza che non arrivi al culmine, nella speranza che non esploda, nella speranza che non finisca mai. Riuscì a riprendere il controllo. Doveva mettere in guardia quella donna.

«Mia moglie Laura. Ti ammazzerà.»

«Non può ammazzarmi» disse lei.

Da un angolo del cervello affiorò un ricordo assurdo: nel Medioevo si diceva che una donna sopra l’uomo, durante il coito, avrebbe concepito un papa. Così veniva detta quella posizione: cercare il papa…

Avrebbe voluto sapere come si chiamava, ma non osava chiederglielo una terza volta, e la strinse a sé sentendo i capezzoli duri e sporgenti e lei ricambiò l’abbraccio attirandolo sempre più dentro di sé e questa volta lui non riusciva né a cavalcare l’onda né a farcisi portare, questa volta l’ondata lo travolse mandandolo a capitombolare e mentre si inarcava per riaffiorare affondava più profondamente di quanto avrebbe mai immaginato possibile, come se lui e la donna fossero tutt’uno, un’unica creatura che assaporava, beveva, abbracciava, desiderava…

«Lascia che sia» gli disse con un sordo ruggito. «Abbandonati a me. Lascia che sia.»

E Shadow venne, sciogliendosi tra spasmi, la mente stessa prima dissolta, poi, attraverso la fase di sublimazione, piano piano dallo stato liquido a quello gassoso.

Chissà dove, in fondo in fondo, prese un respiro, una limpida boccata d’aria che scese nei polmoni, e allora capì che aveva trattenuto il fiato per troppo tempo. Tre anni, almeno. Forse di più.