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«Ora riposa» gli disse lei, e posò le labbra morbide sulle sue palpebre in un bacio. «Lascia che sia. Lascia che tutto sia come dev’essere.»

Il sonno che lo accolse era pesante e senza sogni, consolatorio, e Shadow vi si tuffò con abbandono.

C’era una luce strana. Le sei e quarantacinque, diceva l’orologio, e fuori faceva ancora buio, benché la stanza fosse invasa da un pallido chiarore azzurrastro. Scese dal letto. Era sicuro di essere andato a dormire con il pigiama, invece adesso era nudo e l’aria sulla sua pelle sembrava fredda. Andò a chiudere la finestra.

C’era stata una tormenta, durante la notte: quindici centimetri di neve, forse di più. L’angolo sudicio e fatiscente di città che Shadow riusciva a vedere dalla finestra era stato trasformato in un panorama pulito, molto diverso; le case non avevano più l’aria abbandonata e dimenticata, erano eleganti rivestite di bianco. Le strade invece erano scomparse del tutto sotto un candido manto di neve.

Al confine della capacità di percezione indugiava un’idea, qualcosa che aveva a che fare con la transitorietà. Svanì rapida come un baluginio.

Vedeva benissimo, come se il sole fosse già alto.

Notò qualcosa di strano allo specchio e si avvicinò a guardare stupito: tutti i lividi erano spariti. Si toccò il fianco, premendo forte con i polpastrelli in cerca di una fitta lancinante che gli ricordasse l’incontro con il signor Stone e il signor Wood, o dei lividi verdastri che Mad Sweeney gli aveva lasciato in omaggio. Più niente. La faccia era pulita, senza segni. Però i fianchi e la schiena (dovette contorcersi per vedere) erano coperti di graffi che sembravano prodotti da artigli acuminati.

Dunque non l’aveva sognato. Non del tutto.

Aprì i cassetti e indossò gli indumenti che trovò: un paio di antiquati Levi’s azzurri, una camicia, un maglione blu pesante e un cappotto nero da necroforo che trovò appeso nella cabina armadio.

Infilò le sue vecchie scarpe.

La casa dormiva ancora. Scese lentamente, sperando che il pavimento di legno non scricchiolasse, e uscì; si incamminò nella neve lasciando profonde impronte sul marciapiede. Fuori, anche grazie al riflesso della neve, c’era più luce di quanto avesse immaginato dalla camera.

Dopo un quarto d’ora arrivò a un ponte accanto al quale un grande cartello lo informava che stava uscendo dalla Cairo storica. Sotto il ponte c’era un uomo alto e curvo che fumava nervosamente una sigaretta scosso dai brividi. Gli sembrava di conoscerlo.

Gli arrivò abbastanza vicino da distinguere nella fioca luce invernale il livido rossastro intorno all’occhio. «Buongiorno, Mad Sweeney» disse.

Il mondo era molto silenzioso. Nemmeno un’automobile disturbò il silenzio ovattato.

«Ehi, amico.» Mad Sweeney non alzò lo sguardo. La sigaretta era fatta a mano.

«Se continui a stare sotto i ponti» disse Shadow «la gente comincerà a pensare che sei un troll.»

Questa volta Mad Sweeney alzò la testa e Shadow vide gli occhi stralunati. L’irlandese sembrava spaventato. «Stavo cercando proprio te. Mi devi dare un mano, amico. L’ho fatta grossa.» Inspirò dalla sigaretta, ma quando l’allontanò dalla bocca sul labbro inferiore era rimasto appiccicato un pezzetto di carta e la sigaretta si aprì lasciando cadere sulla barba rossa e sul davanti già sudicio della camicia i fili di tabacco. Mad Sweeney spazzò via tutto con un gesto convulso delle mani sporche, come se si trattasse di insetti pericolosi.

«Le mie disponibilità sono ridotte all’osso» disse Shadow, «comunque perché non mi dici cosa ti serve? Ti offro un caffè?»

Mad Sweeney scosse la testa. Da una tasca del giubbotto di jeans prese una busta di tabacco e un pacchetto di cartine e cominciò a rollare un’altra sigaretta. Intanto sembrava che gli si fosse rizzata la barba e mosse la bocca, anche se non ne uscì nessuna parola. Leccò la colla della cartina e fece scorrere il cilindretto tra le dita. Il risultato somigliava solo vagamente a una sigaretta. Poi disse: «Io non sono un troll. Cazzo. Quei bastardi sono stronzi e cattivi».

«Lo so che non sei un troll, Sweeney» rispose Shadow in tono gentile. «Cosa posso fare per te?»

Mad Sweeney fece scattare lo Zippo di ottone e i primi due centimetri abbondanti di sigaretta presero fuoco riducendosi istantaneamente in cenere. «Ti ricordi che ti ho insegnato a prendere una moneta? Ti ricordi?»

«Sì» disse Shadow. Gli sembrò di rivedere la moneta d’oro che rotolava sulla bara di Laura, che le scintillava al collo. «Ricordo.»

«Hai preso la moneta sbagliata, amico.»

Un’automobile si avvicinò alla zona buia sotto il ponte accecandoli con i fari. Rallentò, si fermò, e qualcuno abbassò un finestrino. «Tutto a posto, signori?»

«Tutto a postissimo, grazie» disse Shadow. «Siamo usciti per una passeggiata mattutina.»

«Allora va bene» rispose il poliziotto. Non aveva per niente l’aria di credere che andasse bene. Non ripartì. Shadow appoggiò una mano sulla spalla di Mad Sweeney e gli diede una spinta, allontanandolo dalla macchina di pattuglia, verso la periferia. Sentì il ronzio del finestrino che veniva chiuso ma vide che il poliziotto non si decideva a ripartire.

Shadow continuò a camminare. Anche Mad Sweeney continuò a camminare, ma ogni tanto barcollava.

La macchina della polizia li superò lentamente, poi fece inversione e tornò verso la città accelerando lungo la discesa coperta di neve.

«Perché non mi dici che cosa ti preoccupa?» disse Shadow.

«Ho fatto come aveva detto lui. Ho fatto tutto quello che mi aveva detto di fare ma ti ho dato la moneta sbagliata. Non era quella. Quella è per i re. Hai capito? In teoria non dovevo nemmeno essere in grado di prenderla. È la moneta che si dà al re d’America in persona. Non a un bastardo ubriacone come me o come te. E adesso sono in un grosso casino. Ridammela, amico. Non mi rivedrai mai più, se me la restituisci, lo giuro su quella testa di cazzo del re Bran, hai capito? Lo giuro su tutti gli anni che ho passato sopra quegli alberi di merda.»

«Chi ti ha detto di fare quello che hai fatto?»

«Grimnir. Il tizio che chiami Wednesday. Sai chi è? Lo sai chi è veramente?»

«Credo di sì.»

Negli occhi folli dell’irlandese passò un’espressione di panico. «Non c’era niente di male. Niente che tu… niente di male. Mi aveva detto di trovarmi in quel bar e di fare a botte con te. Diceva che voleva vedere di che pasta eri fatto.»

«Non ti ha detto di fare altro?»

Sweeney era scosso da brividi e contrazioni. Per un attimo Shadow pensò che tremasse di freddo, poi si rese conto di aver già visto quel modo particolare di rabbrividire, quando era in prigione: un drogato. Sweeney era in astinenza da qualcosa e Shadow avrebbe scommesso che si trattava di eroina. Un leprecauno tossicomane? Mad Sweeney staccò la brace della sigaretta, la gettò a terra e si infilò il mozzicone in tasca. Poi sfregò le mani annerite di sporcizia e ci soffiò sopra per scaldarle. Adesso la sua voce era un gemito lamentoso: «Senti, dammi quella moneta, amico. Te ne darò un’altra in cambio, altrettanto bella. Te ne do una carrettata di quelle cazzo di monete».

Si tolse il berretto da baseball bisunto e con la mano destra fece il gesto di ravviarsi i capelli producendo una grossa moneta d’oro. La lasciò cadere nel berretto. Ne materializzò un’altra da un ricciolo di respiro condensato nell’aria, e poi un’altra ancora, tutte afferrate dall’aria immobile del mattino fino a riempire il berretto, così pesante ormai che Sweeney doveva usare tutte e due le mani per tenerlo.

Lo tese verso Shadow. «Tieni» gli disse. «Prendile, amico. Basta che mi restituisci quella che ti ho dato al bar.» Shadow guardò il berretto e si chiese a quanto ammontasse il contenuto.

«Dove potrei spenderle, Mad Sweeney?» domandò. «Ci sono tanti posti dove cambiare monete d’oro in contanti?»