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La sua macchina si riempì di ospiti; sul sedile accanto al suo aveva preso posto la donna con il sari rosso. Dietro c’erano due uomini, il giovane tarchiato con l’aria strana di cui Shadow non aveva afferrato il nome, che comunque suonava come Elvis, e un altro uomo vestito di scuro che Shadow non riusciva a ricordare.

Era stato in piedi accanto a lui mentre apriva la portiera, gliel’aveva aperta e chiusa, eppure di lui non ricordava niente. Si girò a guardarlo, osservandone con attenzione la faccia, i capelli, i vestiti, facendo di tutto per essere sicuro di riconoscerlo, se l’avesse incontrato di nuovo, e quando tornò a guardare davanti a sé per mettere in moto immediatamente scoprì che l’uomo era scivolato fuori dai suoi ricordi. Gli era rimasta un’impressione di ricchezza, nient’altro.

Sono stanco, pensò. Gettò un’occhiata alla sua destra, alla donna indiana. Notò la collana d’argento con i piccoli teschi che le adornava il collo, il braccialetto portafortuna con le teste e le mani mozzate che tintinnavano come campanelli, quando si muoveva, il gioiello blu in mezzo alla fronte. Profumava di spezie, cardamomo e noce moscata, e di fiori. Aveva i capelli sale e pepe e quando si accorse che lui la stava guardando gli sorrise.

«Chiamami Mama-ji» disse.

«Io sono Shadow, Mama-ji».

«E che cosa ne pensi dei piani del tuo datore di lavoro, signor Shadow?»

Rallentò per lasciare che un grosso furgone nero li superasse spruzzandoli di fango. «Io non faccio domande, lui non dà spiegazioni.»

«Se vuoi la mia opinione, penso che stia cercando di fare una grande uscita di scena. Vuole saltare per aria in un alone di gloria. Ecco che cosa vuole. E noi siamo abbastanza vecchi, o abbastanza stupidi, da dirgli di sì, almeno qualcuno di noi.»

«Il mio lavoro non è fare domande, Mama-ji» rispose Shadow. L’abitacolo della macchina risuonò della risata argentina della donna.

L’uomo sul sedile posteriore — non il giovane dall’aria strana, l’altro — disse qualcosa, e Shadow gli rispose, ma un momento dopo per niente al mondo avrebbe potuto ricordare che cosa si erano detti.

Il giovane dall’aria strana non aveva ancora parlato, ma adesso cominciò a canticchiare tra sé a bocca chiusa, un canto melodico e basso che faceva vibrare e ronzare l’abitacolo.

Era di altezza media, ma aveva una forma insolita: Shadow aveva sentito parlare di uomini fatti a botte, ma non si era mai figurato la metafora. Questo aveva il tronco come una botte e le gambe, ebbene sì, come ceppi, e le mani proprio come due guantoni da baseball. Portava una giacca a vento nera con il cappuccio, un certo numero di maglioni, un paio di calzoni pesanti da lavoro e, stranamente, dato il clima e il resto dell’abbigliamento, un paio di scarpe da tennis bianche che avevano le dimensioni e la forma di due scatoloni. Le sue dita sembravano salsicciotti, i polpastrelli erano quadrati, tozzi.

«Certo che canticchi mica male» disse Shadow.

«Scusa» rispose il giovanotto dall’aria strana con una voce molto, molto profonda, imbarazzato. Smise subito di canticchiare.

«No, mi piaceva» disse Shadow. «Non smettere.»

Il giovane dall’aria strana ebbe un momento di esitazione e poi ricominciò con la voce grave e risonante di prima. Questa volta intercalava qua e là con delle parole. «Giù giù giù» cantava, con voce talmente profonda che i vetri dei finestrini sbatacchiavano. «Giù giù giù, giù giù, giù giù.»

Sulle gronde di tutte le case e dei palazzi che incontravano lungo la strada c’erano decorazioni natalizie: da una discreta cascata di lampadine dorate e intermittenti a gigantesche luminarie con sagome di omini di neve, orsacchiotti e stelle multicolori.

Shadow arrivò al ristorante, un’enorme struttura tipo fienile e fece scendere i passeggeri davanti all’ingresso. Poi andò a parcheggiare. Gli piaceva l’idea di fare il breve percorso fino all’entrata da solo, al freddo, per schiarirsi le idee.

Parcheggiò accanto a un furgone nero e si domandò se per caso non fosse lo stesso che li aveva sorpassati poco prima. Chiuse la portiera e rimase fermo in mezzo al parcheggio, a guardare il suo fiato che evaporava nell’aria.

Immaginava Wednesday al ristorante, già indaffarato a far accomodare gli ospiti intorno a un grande tavolo rotondo, a correre dappertutto. Si domandò se veramente la signora seduta accanto a lui in macchina fosse la dea Kalì, e si interrogò anche su chi avesse trasportato, sul sedile posteriore…

«Ehi, amico, hai da accendere?» disse una voce che suonava quasi familiare. Shadow si girò per scusarsi e dire che no, non aveva da accendere, ma quando la canna della pistola lo colpì sopra l’occhio sinistro cominciò a barcollare. Tese un braccio in cerca di appoggio, ma qualcuno gli infilò in bocca qualcosa di soffice per impedirgli di gridare, e gli sigillò le labbra con il nastro adesivo: gesti sciolti, esperti, come quelli di un macellaio che sventra un pollo.

Cercò di gridare, di dare l’allarme a Wednesday, di mettere in guardia tutti, ma dalla bocca gli uscì soltanto un suono soffocato.

«La selvaggina è in trappola» disse la voce quasi familiare. «Pronti?» Da una radio arrivò una rispósta fioca e gracchiante. «Circondiamoli.»

«Dell’omone cosa ne facciamo?» disse un’altra voce.

«Impacchettalo e portalo via» rispose la prima voce.

Lo incappucciarono, gli legarono polsi e caviglie con altro nastro adesivo e dopo averlo infilato nel furgone partirono.

Non c’erano finestre nella stanzina dove l’avevano rinchiuso: una sedia di plastica, un tavolino pieghevole da picnic e un secchio con coperchio da usare come gabinetto. Sul pavimento c’erano anche una striscia di gommapiuma gialla lunga circa due metri e una copertina sottile con una vecchia macchia scura nel mezzo: sangue, merda, o cibo, Shadow non avrebbe saputo dire, né si curò di appurarlo. Dietro una griglia di metallo nel soffitto vide una lampadina nuda, ma non riuscì a trovare l’interruttore da nessuna parte. La luce restava sempre accesa. Dall’interno la porta non aveva maniglie.

Shadow era affamato.

La prima cosa che aveva fatto, quando i due spioni lo avevano spinto dentro dopo avergli tolto il nastro adesivo da polsi, caviglie e bocca e lo avevano lasciato solo, era stato di ispezionare con cura la stanza. Aveva battuto sulle pareti ottenendo un suono sordo, metallico. In alto in alto c’era una piccola griglia di ventilazione. La porta era chiusa ermeticamente.

Dal sopracciglio sinistro gli colava un sottile rivolo di sangue. Aveva mal di testa. Il pavimento era spoglio. Picchiò: era fatto dello stesso materiale metallico delle pareti.

Sollevò il coperchio del secchio, pisciò e riappoggiò il coperchio. Secondo il suo orologio erano passate solo quattro ore dall’imboscata al ristorante.

Non aveva più il portafogli, però gli avevano lasciato le monete.

Sedette sulla sedia davanti al tavolino pieghevole coperto da un panno verde pieno di bruciature di sigaretta. Si esercitò a far comparire le monete attraverso il ripiano del tavolo, poi ne prese due da venticinque centesimi ed eseguì il cosiddetto Trucco Ozioso.

Nascose una moneta nel palmo destro e mostrò l’altra nella sinistra tenendola tra indice e pollice. Poi finse di prendere quella che teneva con la sinistra mentre in realtà la nascondeva nel palmo e apriva la mano destra per mettere in mostra la moneta che non si era mai mossa di lì.

Manipolare le monete richiedeva tutta la sua capacità di concentrazione; anzi, se era arrabbiato o sconvolto non riusciva a combinare niente, e quindi esercitarsi con i giochi di prestigio, anche quelli che non avevano un senso — come in questo caso, in cui aveva investito un’enorme quantità di fatica e abilità per creare l’illusione di spostare una moneta da una mano all’altra, cosa che si potrebbe ottenere con un semplice gesto — aveva sempre l’effetto di calmarlo, di scacciare dalla sua mente agitazione e paura.