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«Ammettiamolo, esercitiamo una ben scarsa influenza. Li deprediamo, li derubiamo, e sopravviviamo; ci spogliamo, ci prostituiamo e beviamo troppo; lavoriamo alle pompe di benzina e rubiamo e truffiamo e viviamo nelle crepe ai margini della società. Vecchi dèi, in questa nuova terra senza dèi.»

Wednesday fece una pausa per guardare i suoi ascoltatori a uno a uno con la gravita di un uomo di stato. Loro lo fissavano impassibili, i volti impenetrabili come maschere. Wednesday si schiarì la gola e sputò con violenza nel fuoco. Le fiamme si ravvivarono con fragore illuminando l’interno della dimora.

«Adesso, come avete avuto modo di scoprire da soli, in America stanno nascendo nuovi dèi che crescono sopra nodi di fede: gli dèi delle carte di credito e delle autostrade, di Internet e del telefono, della radio e dell’ospedale e della televisione, dèi fatti di plastica, di suonerie e di neon. Dèi pieni di orgoglio, creature grasse e sciocche, tronfie perché si sentono nuove e importanti.

«Sono consapevoli della nostra esistenza, ci temono e ci odiano» continuò Odino. «Vi ingannate, se credete che non sia così. Ci distruggeranno, se glielo permetteremo. È tempo per noi di unire le forze. È tempo di agire.»

La donna con il sari rosso avanzò verso i bagliori del fuoco. Sulla fronte aveva un piccolo gioiello blu scuro. Disse: «Ci hai fatti venire qui per sentire questi discorsi senza senso?». Poi sbuffò. Uno sbuffo che era insieme divertito e irritato.

Wednesday la guardò con cipiglio. «Ti ho chiesto di venire fin qui, è vero. Ma questi discorsi un senso ce l’hanno, Mama-ji. Anche un bambino se ne accorgerebbe.»

«Sarei una bambina, allora?» Gli agitò un dito contro. «Io ero già vecchia, a Kalighat, prima che tu fossi concepito, vecchio sciocco. Sarei una bambina, eh? D’accordo, lo sono, perché nei tuoi folli discorsi non c’è niente da capire.»

Ancora un momento di doppia visione: Shadow vedeva la vecchia signora, il volto scuro raggrinzito dalle rughe e dalla disapprovazione, ma dietro di lei vedeva anche qualcosa di enorme, una donna nuda e nera come una giacca di pelle nuova, con le labbra e la lingua rosse come il sangue arterioso. Intorno al collo portava una collana fatta di teschi, e nelle sue innumerevoli mani teneva coltelli, e spade, e teste mozzate.

«Non ti ho chiamata bambina, Mama-ji» disse Wednesday in tono conciliante. «Ma sembra evidente…»

«L’unica cosa evidente» ribatté la vecchia indicando con un dito (e dietro di lei, o attraverso, o sopra, un dito scuro con l’artiglio acuminato echeggiava il movimento) «è la tua brama di gloria. In questo paese abbiamo vissuto a lungo in pace. Alcuni di noi se la passano meglio di altri, è vero. Io me la cavo bene. In India c’è una mia incarnazione che se la passa molto meglio, ma così va il mondo. Non sono invidiosa. Ho visto le novità nascere e morire.» Lasciò cadere il braccio lungo il fianco. Shadow vide che gli altri la guardavano, con espressioni diverse — rispettose, divertite, imbarazzate — negli occhi. «Qui adoravano la ferrovia, meno di un battito di ciglia fa. E adesso gli dèi di ferro sono finiti nel dimenticatoio come i cercatori di smeraldi…»

«Arriva al dunque, Mama-ji» disse Wednesday.

«Al dunque?» Le narici della donna fremettero, gli angoli della bocca le si piegarono verso il basso. «Io — e ovviamente sono soltanto una bambina — dico di aspettare. Di non fare niente. Non sappiamo ancora se vogliono farci del male.»

«E continuerai a consigliarci di aspettare, quando una notte verranno per ucciderti o rapirti?»

L’espressione della donna era sprezzante e divertita: tutta concentrata nella bocca, nella fronte e nella linea del naso. «Se ci provassero» disse, «scoprirebbero che prendermi non è facile, e uccidermi più difficile ancora.»

Un giovane tarchiato che era seduto sulla panca dietro di lei si schiarì la gola per richiamare l’attenzione e con voce tonante disse: «Padre Universale, la mia gente sta bene. Cerchiamo di ricavare il massimo da quello che c’è. Se questa guerra di cui parli ci coinvolgesse potremmo perdere tutto».

«Avete già perso tutto» rispose Wednesday. «Io vi sto offrendo l’occasione di riprendervi qualcosa.»

Le fiamme bruciavano alte, mentre parlava, illuminando le facce dei presenti.

Non ci credo veramente, pensò Shadow. Non credo a niente di tutto ciò. Forse ho ancora quindici anni. La mamma è ancora viva e non ho mai incontrato Laura. Tutto quello che è successo finora è stato un sogno particolarmente vivido.Tuttavia nemmeno questa spiegazione gli sembrava plausibile. È sui sensi che fondano le nostre convinzioni, sono gli unici strumenti di cui disponiamo per fare esperienza: la nostra vista, il tatto, la memoria. Se i sensi ci mentono, allora non abbiamo niente di cui fidarci. E anche se non crediamo a ciò che ci dicono, non abbiamo altro modo per viaggiare che quello di seguire la strada che essi ci indicano, ed è una strada che dobbiamo percorrere fino in fondo.

Poi il fuoco si spense e a Valaskjalf, nella sala di Odino, scese il buio.

«E adesso?» sussurrò Shadow.

«Adesso torniamo nella Sala della Giostra» bofonchiò il signor Nancy. «E il vecchio Monocolo ci offre la cena, unge qualche tasca, bacia qualche guancia e nessuno pronuncia più la parola che comincia per d.»

«Quale parola?»

«La parola dèi. Ma che cosa facevi tu il giorno in cui distribuivano i cervelli, ragazzo, me lo vuoi dire?»

«Qualcuno stava raccontando una storia sul furto di un paio di palle di tigre e mi sono fermato per sapere come andava a finire.»

Il signor Nancy ridacchiò.

«Però non è stato deciso niente. Nessuno si è messo d’accordo.»

«Se li sta lavorando con calma. Verranno tutti dalla sua parte, vedrai, uno dopo l’altro. Alla fine si convinceranno.»

Shadow sentì arrivare da chissà dove un vento che gli scompigliava i capelli, lo sferzava, lo spingeva.

Erano nella sala che ospitava la più grande giostra del mondo e stavano ascoltando il Valzer dell’Imperatore.

C’era un gruppo di persone, turisti, dall’aspetto, che parlavano con Wednesday da una parte, più o meno lo stesso numero di persone che Shadow aveva visto nell’ombra della sala. «Da questa parte» tuonò Wednesday, e condusse tutti attraverso l’unica uscita concepita per sembrare la bocca spalancata di un mostro gigantesco, con i denti aguzzi pronti a fare tutti a brandelli. Wednesday si muoveva in mezzo alla gente come un uomo politico, persuadeva con le lusinghe, incoraggiava, sorrideva, contrapponeva con gentilezza le sue ragioni alle loro, convinceva.

«È successo davvero?» domandò Shadow.

«Che cosa è successo davvero, testa di cavolo?» chiese il signor Nancy.

«La sala di Odino. Il fuoco. Le palle del Tigre. La corsa sulla giostra.»

«Diamine, nessuno può salire sul carosello. Non hai visto i cartelli? Sta’ zitto.»

Attraverso la bocca del mostro arrivarono alla Sala dell’Organo, che lasciò Shadow più perplesso che mai: non erano già passati, da quella parte? La sala non risultava meno strana la seconda volta. Wednesday li guidò su per alcune rampe di scale, oltre modelli a grandezza naturale dei quattro cavalieri dell’Apocalisse appesi al soffitto e seguirono le indicazioni per l’uscita.

Shadow e Nancy chiudevano la fila. Ed eccoli fuori della House on the Rock; passarono accanto al negozio di souvenir e si diressero al parcheggio.

«Peccato dover uscire» disse il signor Nancy. «Speravo di vedere la più grande orchestra meccanica del mondo.»

«Io l’ho vista» disse Chernobog. «Non è granché.»

Il ristorante era a dieci minuti di macchina. Wednesday aveva detto a tutti che quella sera sarebbero stati suoi ospiti e aveva organizzato il trasporto al ristorante per quelli che erano venuti senza mezzi.

Shadow si chiedeva come avessero fatto ad arrivare fin lì, innanzitutto, senza un mezzo proprio, e come se ne sarebbero andati, ma preferì non dire niente. Gli sembrava la cosa più furba da fare.