«Tuo fratello è stato fortunato,» commentò Yoss.

Poi guardò il Capo, domandandosi come avrebbe preso questa provocazione. Il suo grande volto scuro aveva un'espressione mite alla luce del camino. I capelli grigi e ruvidi erano sfuggiti alla treccia poco tesa in cui li aveva legati per tenerli lontani dagli occhi, e adesso gli coprivano il viso. Abberkam replicò, con voce lenta e dolce, «Era il mio fratello minore. Era Enar del Campo dei Cinque Eserciti».

Oh, allora tu sei Kamye in persona? ribatté Yoss tra sé e sé, turbata, indignata, cinica. Che razza di ego! Però c'era un'altra implicazione. Enar aveva levato la spada per uccidere il fratello maggiore su quel campo di battaglia, per impedirgli di diventare Signore del Mondo. E Kamye gli aveva detto che la spada che brandiva portava la sua stessa morte, che non esiste signoria o libertà in vita, si può soltanto abbandonare la vita, la brama, il desiderio. Allora Enar aveva abbassato la spada per andare nel deserto, nel silenzio, dicendo soltanto, «Fratello, io sono te». E Kamye aveva raccolto quella spada per combattere le Armate della Desolazione, sapendo che non esiste vittoria.

Allora chi era, quell'uomo? Quel bestione? Quel vecchio malato, quel bambino nel buio delle miniere, quel bullette), quel ladro, quel mentitore che era convinto di parlare in nome del Signore?

«Stiamo parlando troppo,» disse Yoss, anche se nessuno dei due aveva aperto bocca negli ultimi cinque minuti. Gli versò una tazza di tè e tolse la teiera dal fuoco, dove l'aveva tenuta a sobbollire per umidificare l'aria, poi raccolse lo scialle. Lui la guardò con la medesima espressione mite, una faccia quasi frastornata.

«Era la libertà che volevo,» disse. «La nostra libertà.»

A lei poco interessava della sua coscienza. «Stai al caldo,» gli disse.

«Esci a quest'ora?»

«Non mi posso perdere sulla passerella.»

Però fu una strana passeggiata, perché era senza lanterna, ed era una notte molto buia. Mentre avanzava a tentoni sulla strada rialzata, ripensò all'aria nera nelle miniere di cui lui le aveva parlato, a un'aria che inghiottiva la luce. Pensò al corpo nero e pesante di Abberkam. Pensò a quante poche volte le era capitato di passeggiare da sola di notte. Quand'era bambina, alla piantagione di Banni, di notte gli schiavi venivano rinchiusi nel complesso. Le donne stavano nei quartieri delle donne e non uscivano mai da sole. Prima della Guerra, quando era arrivata in città come liberta per frequentare la scuola di tirocinio, aveva assaporato la libertà, ma negli anni cupi della Guerra e anche dopo la Liberazione una donna non poteva girare tranquilla per le strade di notte. Nei quartieri operai non c'era polizia, e nemmeno lampioni. I signori della guerra dei vari distretti sguinzagliavano le loro bande a fare razzie. Dovevi stare all'erta persino in pieno giorno, tenerti in mezzo alla folla, essere sempre sicura di avere una via di fuga.

Temeva che le potesse sfuggire il punto in cui doveva svoltare, ma quando ci arrivò ormai gli occhi si erano abituati all'oscurità, e riuscì persino a distinguere la chiazza della sua casa nel paesaggio indistinto dei canneti. Gli Alieni ci vedevano male di notte, da quel che le avevano detto. Avevano degli occhietti piccini, dei puntini col bianco tutto intorno, come un vitellino impaurito. Quegli occhi non le piacevano, anche se amava il colore della loro pelle, un marrone scuro o rossiccio, più caldo di quel marrone bigio della pelle degli schiavi oppure del nero con sfumature bluastre della pellaccia che Abberkam aveva ereditato dal possidente che gli aveva violentato la madre. Pelli cianotiche, come le definivano delicatamente gli Alieni, un adattamento oculare allo spettro luminoso del sole del sistema wereliano.

Gubu le danzò attorno mentre scendeva il sentierino, silenzioso le pizzicò le gambe con la coda. «Attento,» lo rimproverò lei, «altrimenti ti pesto.» Gli era tanto grata che lo raccolse da terra appena entrati in casa. Questa sera non l'aspettava il saluto gioioso e nobile di Tikuli, né stasera né mai. Ron-ron-ron, faceva Gubu sotto il suo orecchio, dammi ascolto, io sono qui, la vita continua, dov'è la cena?

In fin dei conti, il capo aveva una punta di polmonite, così Yoss andò al villaggio per chiamare la clinica di Veo. Quelli mandarono un dottore che disse che non andava malaccio, bastava tenerlo su seduto a tossire, gli infusi d'erbe andavano bene, bastava tenerlo sotto controllo, questo sì, e se ne andò, grazie tante. Così lei trascorse i pomeriggi col Capo. Senza Tikuli la casa sembrava tanto tetra, le giornate di fine autunno parevano tanto fredde, e poi cos'altro aveva da fare? Le piaceva quella casa galleggiante, grande e buia. Non era affatto intenzionata a fare i lavori di casa per il Capo o per qualsiasi uomo che non sapesse badare a se stesso, però ficcanasò, si aggirò nelle stanze che Abberkam non usava o che forse non aveva mai nemmeno visitato. Ne trovò una che le piaceva al piano di sopra, con delle lunghe finestre basse lungo tutta la parete ovest. La spazzò e pulì le finestre con i loro piccoli pannelli verdognoli. Quando lui dormiva, lei saliva a sedersi in quella stanza, su un tappeto sdrucito di lana, il suo unico arredo. Il camino era stato murato con dei mattoni scompagnati, ma il calore arrivava dal fuoco di torba acceso al piano di sotto, e con la schiena contro i mattoni tiepidi e il sole che entrava di sbieco, Yoss se ne stava al calduccio. Lì trovava una pace che sembrava appartenere a quella stanza, alla conformazione dell'aria, a quei vetri verdi e disomogenei. Sedeva lì in silenzio, senza far nulla, soddisfatta, come non le era mai successo a casa sua.

Il Capo si riprese molto lentamente. Spesso era imbronciato, arcigno, sembrava la persona incivile che in un primo tempo lei aveva pensato fosse, immerso in uno stato stuporoso di rabbia e vergogna egocentrica. Altri giorni, invece, era disposto a parlare, e persino ad ascoltare, ogni tanto.

«Stavo leggendo un libro sui mondi dell'Ekumene,» gli disse Yoss mentre aspettava che le frittelle di fagioli fossero pronte per essere girate dall'altra parte. In quegli ultimi giorni cucinava e mangiava con lui nel tardo pomeriggio, poi lavava i piatti per tornare a casa prima che facesse buio. «È molto interessante. Sembra accertato che discendiamo tutti dal popolo di Hain, tutti quanti. Noi, e anche gli Alieni. Persino i nostri animali hanno degli antenati comuni.»

«Così dicono,» grugnì il Capo.

«Non è questione di chi lo dice. Chiunque controlli i dati lo può verificare. È un fatto genetico. Che poi non ti piaccia non cambia la cosa.»

«Cos'è un "fatto" vecchio di un milione di anni?» replicò il Capo. «Cos'ha a che vedere con te, con me, con noi? Questo è il nostro mondo. Noi siamo noi. Non abbiamo nulla a che spartire con quelli.»

«Adesso sì,» ribatté Yoss seccamente, mentre girava le frittelle di fagioli.

«Non se fosse andata come volevo.»

Lei si mise a ridere. «Non ti dai mai per vinto, eh?»

«No.»

Dopo aver mangiato, lui a letto sul vassoio, lei su uno sgabello presso il focolare, Yoss proseguì, con la sensazione di stuzzicare un toro, di sfidare una valanga a precipitare. Per quanto fosse debole e malato, in lui, nella sua mole, non soltanto fisica, era racchiusa una minaccia. «Era tutto qua, allora?» gli chiese. «Il Partito Mondiale. Avere il pianeta tutto per noi, senza Alieni? Tutto qua?»

«Sì,» rispose lui, con un rombo cupo.

«Perché? Abbiamo tanto a che spartire con l'Ekumene. Ha spezzato il dominio delle Corporazioni. Sta dalla nostra parte.»

«Ci hanno portato su questo mondo come schiavi, ma è anche il mondo in cui troveremo la nostra strada. Kamye è venuto con noi, il Mandriano, lo Schiavo, Kamye lo Spadaccino. Questo è il suo mondo. La nostra terra. Nessuno ce la può regalare. Non abbiamo bisogno di spartire il sapere delle altre genti o di seguire i loro dèi. Qui è dove viviamo, questa terra. Qui è dove moriremo per raggiungere il Signore.»