Alcune case erano fatiscenti, e ogni facitore d'anima le poteva reclamare. Molte, come la capanna di canne intrecciate di Yoss, erano proprietà di abitanti di villaggio che le conservavano per darle a un liberto eremita come adempimento religioso, come modo per arricchire la propria anima. A Yoss non dispiaceva sapere di essere una fonte di profitto spirituale per il suo padrone di casa, un individuo avido il cui conto in sospeso con la Provvidenza sarebbe stato altrimenti in notevole passivo. Le piaceva sentirsi utile. Lo prendeva per un altro segno della sua incapacità a lasciar andare la sua presa sul mondo, come le aveva comandato il Signore Iddio Kamye. Non sei più utile, le aveva detto in cento modi, ancora e ancora, sin da quando aveva compiuto sessant'anni, ma lei non lo stava ad ascoltare. Aveva lasciato il mondo rumoroso per venire nelle paludi, ma dimenticava il mondo chiacchierando e spettegolando e cantando e gridando nelle proprie orecchie. Non voleva ascoltare la voce sommessa del Signore.

Quando rientrò, Eyid e Wada se n'erano già andati. Il letto era rifatto alla perfezione, e il volpino Tikuli ci stava dormendo sopra, rannicchiato attorno alla propria coda. Gubu, il gatto maculato, stava zampettando in giro per casa, chiedendo di essere nutrito. Lo raccolse, carezzandogli la schiena macchiettata di pelo serico mentre lui le strofinava il naso sotto l'orecchio, facendo quel suo insistente ron-ron-ron di piacere e affetto. Poi lo nutrì. Tikuli non ci fece caso, il che era strano. Tikuli stava dormendo troppo. Yoss si sedette sul letto, grattandogli la base delle rigide orecchie dal pelo rosso. Lui si svegliò e sbadigliò e la guardò con quei dolci occhi gialli, agitando il pennacchio rosso della coda. «Non hai fame?» gli chiese. Mangio solo per farti piacere, rispose Tikuli, scendendo dal letto un po' anchilosato. «Oh, Tikuli, mi diventi vecchio,» disse Yoss, e quella spada le si agitò in petto. Era stata sua figlia Safnan a regalarle Tikuli, un cucciolotto rosso, un tornado di zampe e coda piumosa… quanto tempo fa? Otto anni. Tanto tempo. Una vita per un volpino.

Più di una vita per Safnan. Più di una vita per i suoi figli, i nipotini di Yoss, Enkamma e Uye.

Finché io sono viva, loro sono morti, pensò Yoss, come sempre. Quando loro saranno vivi, io sarò morta. Sono saliti sulla nave che vola come la luce, sono stati tradotti nella luce. Quando torneranno alla vita, quando scenderanno dall'astronave sul mondo chiamato Hain, saranno passati ottant'anni dal giorno che sono partiti, e io sarò morta, morta da molto tempo. Io sono morta. Mi hanno lasciato, e sono morta. Lascia che vivano, Signore, dolce Signore, lascia che vivano, e che io muoia. Sono venuta qui per morire. Per loro. Non posso, non posso permettere che siano morti per me.

Il freddo naso di Tikuli le sfiorò la mano. Lei lo osservò con attenzione. Il color giallo ambra degli occhi era offuscato, azzurrino. Gli carezzò la testa, lo grattò dietro le orecchie, in silenzio.

Lui mangiò qualche boccone per farle piacere, poi risalì sul letto. Yoss si preparò la cena, zuppa e biscotti riscaldati, e la mangiò, senza nemmeno assaporarla. Lavò i tre piatti che aveva usato, accese il fuoco e ci si sedette accanto cercando di leggere il libro lentamente, mentre Tikuli dormiva sul letto e Gubu stava sdraiato per terra con gli occhi tondi e dorati fissi sul fuoco, facendo le fusa. Una volta sola si sollevò per lanciare il suo grido di battaglia, «Uuuuh!», verso qualche rumore arrivato dagli stagni, e si aggirò per un poco nella capanna, poi tornò a sedersi, a fissare il fuoco facendo le fusa. Più tardi, col fuoco spento e la casa completamente al buio in quell'oscurità priva di stelle, Gubu raggiunse Yoss e Tikuli sul letto caldo, dove quel pomeriggio i giovani amanti avevano trovato la loro gioia breve e feroce.

Si ritrovò a pensare ad Abberkam nei due giorni seguenti, mentre lavorava nell'orticello per ripulirlo in vista dell'inverno. Quando il Capo era arrivato lì la prima volta, gli abitanti del villaggio erano tutti eccitati perché andava a vivere in una casa che apparteneva al capetto locale. Per quanto fosse in disgrazia e disonorato, era pur sempre un uomo assai famoso. Capo eletto degli Heyend, una delle principali tribù di Yeowe, Abberkam era salito alla ribalta durante gli ultimi anni della Guerra di Liberazione, alla testa di un grande movimento che propugnava quella che lui chiamava Libertà Razziale. Persino qualche abitante del villaggio aveva abbracciato il principio cardine del Partito Mondiale: su Yeowe doveva vivere soltanto la sua gente. Niente Wereliani, gli odiati colonizzatori ancestrali, niente Boss e Possidenti. La Guerra aveva posto fine alla schiavitù, e negli ultimi anni i diplomatici dell'Ekumene avevano trattato la fine del dominio economico di Werel sui suoi ex pianeti colonia. I Boss e i Possidenti s'erano ritirati su Werel, il Vecchio Mondo, il primo pianeta venendo dal sole, persino quelli le cui famiglie vivevano su Yeowe da secoli. Erano scappati, e i loro soldati erano stati ricacciati sulla loro scia. Come diceva il Partito Mondiale, non dovevano tornare mai più. Né come mercanti né come visitatori, non avrebbero mai più inquinato il suolo e l'anima di Yeowe. E così tutti gli altri stranieri, tutte le altre Potenze. Gli Alieni dell'Ekumene avevano aiutato Yeowe a liberarsi, e adesso se ne dovevano andare pure loro. Qui non c'era posto per quella gente. «Questo è il nostro mondo. Questo è il mondo libero. Qui plasmeremo le nostre anime a immagine e somiglianza di Kamye lo Spadaccino,» aveva detto Abberkam a più riprese, e quell'immagine, la scimitarra, era diventata il simbolo del Partito Mondiale.

Ed era stato versato del sangue. Dalla rivolta di Nadami in poi, trent'anni di lotte, ribellioni, ritorsioni, metà della sua vita, e i conflitti erano proseguiti persino dopo la Liberazione, dopo che tutti i Wereliani se n'erano andati. Sempre, sempre, i giovani erano pronti a correre ad ammazzare chiunque i vecchi gli dicessero di ammazzare, a uccidersi tra di loro, a uccidere le donne, gli anziani, i bambini, sempre c'era una guerra da combattere in nome di Pace, Libertà, Giustizia, in nome del Signore. Le tribù appena liberate combattevano per la terra, i capi cittadini combattevano per il potere. Tutto quel che Yoss aveva creato nella sua vita di educatrice nella capitale era andato in pezzi non solo durante la Guerra di Liberazione ma anche dopo, mentre la città si disintegrava in una guerra di difesa dopo l'altra.

A suo parere, volendo essere giusti, Abberkam, alla guida del Partito Mondiale, nonostante brandisse la spada di Kamye, aveva tentato di scongiurare la guerra, e in parte c'era riuscito. Le sue simpatie andavano all'acquisizione del potere tramite politica e persuasione, arti in cui era maestro. Era arrivato molto vicino al successo pieno. La scimitarra era ovunque, le adunate che applaudivano i suoi discorsi erano immense. ABBERKAM E LIBERAZIONE RAZZIALE! proclamavano gli enormi manifesti che tappezzavano le strade delle città. Lui era certo di vincere le prime elezioni libere mai tenute su Yeowe, di diventare Capo del Consiglio Mondiale. E poi, partendo dal poco o nulla, le voci. Le defezioni. Il suicidio del figlio. Le accuse della madre del figlio, che lo tacciava di depravazione e delle peggiori lussurie. La prova che s'era appropriato di grandi somme di denaro donate al suo partito per soccorrere i distretti impoveriti dal ritiro della capitale wereliana. La rivelazione del piano segreto per assassinare il Nunzio dell'Ekumene e farne poi ricadere la colpa su Demeye, vecchio amico e sostenitore di Abberkam… Tutto ciò l'aveva portato alla rovina. Un capo poteva anche gratificarsi sessualmente, fare un pessimo utilizzo del potere, arricchirsi alle spalle della sua gente ed essere ammirato per questo, ma un capo che tradiva il suo compagno non poteva essere perdonato. Secondo Yoss, era il codice dello schiavo.