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— Lo so.

— Una volta che lei sia sceso, una volta che abbia superato il muro con me, lei, come io vedo la cosa, sarà uno di noi. Noi siamo responsabili verso di lei e lei è responsabile verso di noi, lei diventa un anarresiano, con le stesse opzioni di tutti gli altri. Ma non sono opzioni sicure. La libertà non è mai molto sicura. — Si guardò attorno nella stanza tranquilla e ordinata, con i suoi semplici quadri di comando e i suoi delicati strumenti, il suo alto soffitto e le sue pareti senza finestre, e riportò lo sguardo su Ketho. — Lei si troverà molto solo — disse.

— La mia razza è molto antica — disse Ketho. — Siamo civili da mille millenni. Abbiamo storie di centinaia di questi millenni. Abbiamo provato ogni cosa. L’anarchia, con il resto. Ma io non l’ho provata. Dicono che non ci sia niente di nuovo sotto nessun sole. Ma se ogni vita non è nuova, ogni singola vita, allora perché nasciamo?

— Siamo i figli del tempo — disse Shevek, in pravico. L’uomo più giovane lo fissò per un momento, e poi ripeté le parole in iotico: — Siamo i figli del tempo.

— Giusto — disse Shevek, e rise. — Giusto, ammar! Faresti meglio a chiamare nuovamente Anarres sulla radio… prima il Gruppo… Ho detto a Keng, l’ambasciatrice, che non avevo nulla da dare in cambio di ciò che il suo popolo e il tuo hanno fatto per me; be’, forse posso darvi qualcosa in cambio. Un’idea, una promessa, un rischio…

— Parlerò al comandante — disse Ketho, serio come sempre, ma con un leggerissimo tremore di eccitazione, di speranza nella voce.

Molto tardi, la successiva notte della nave, Shevek era nel giardino del Davenant. Le luci erano spente, ed era illuminato soltanto dalla luce delle stelle. L’aria era fredda. Un fiore che sbocciava di notte, proveniente da qualche mondo inimmaginabile, si era aperto fra le foglie scure e diffondeva il proprio profumo con paziente e vana dolcezza per attirare qualche inimmaginabile falena, a trilioni di chilometri di distanza, nel giardino di un mondo che ruotava intorno a un’altra stella. Le luci solari sono differenti, ma c’è soltanto una oscurità. Shevek era fermo accanto all’alto, chiaro oblò, e osservava la parte notturna di Anarres, una curva oscura su metà delle stelle. Si chiedeva se Takver sarebbe stata presente laggiù, al Porto. Non era ancora arrivata ad Abbenay da Pace e Abbondanza l’ultima volta che aveva parlato con Bedap, cosicché egli aveva lasciato a Bedap l’incarico di discutere e di decidere con lei se sarebbe stato saggio recarsi al Porto. «E credi che potrei fermarla, se non lo fosse?» aveva detto Bedap. Si chiedeva anche che tipo di viaggio avesse fatto dalla costa di Sorruba; un dirigibile, si augurava, se aveva portato le bambine. Viaggiare col treno era duro, se si era accompagnati da bambini. Ricordava ancora i disagi del viaggio da Chakar ad Abbenay, nel ’68, quando Sedik aveva avuto il mal di treno per tre mortali giorni.

La porta della cabina giardino si aprì, aumentando la scarsa illuminazione. Il comandante della Davenant guardò dentro e disse il proprio nome; Shevek rispose; il comandante entrò, con Ketho.

— Abbiamo ricevuto dal vostro controllo lo schema di atterraggio per il nostro battello — disse il comandante. Era un Terrestre di bassa statura, color del ferro, freddo e pratico. — Se lei è pronto a venire, potremo cominciare le procedure del lancio.

— Certo.

Il comandante gli rivolse un cenno del capo e si allontanò. Ketho si accostò a Shevek davanti all’oblò.

— Sei sicuro di voler attraversare questo muro con me, Ketho? Sai, per me è facile. Qualsiasi cosa succeda, io torno a casa. Ma tu lasci la tua casa. «Vero viaggio è il ritorno…».

— Spero di tornare — disse Ketho con la sua voce pacata. — A suo tempo.

— Quando dobbiamo salire sul battello d’atterraggio?

— Tra circa venti minuti.

— Io sono pronto. Non ho bagagli da fare. — Shevek rise: una risata di chiara, incondizionata felicità. L’altro uomo lo guardò con gravità, come se non fosse sicuro di quel che fosse la felicità, eppure la riconoscesse o forse la ricordasse da un tempo lontano. Rimase fermo accanto a Shevek come se desiderasse chiedergli qualcosa. Ma non lo chiese. — Sarà mattina presto al Porto di Annares — disse infine, e si accommiatò per andare a prendere le sue cose prima di incontrarsi con Shevek al portello di lancio.

Rimasto solo, Shevek si voltò di nuovo verso l’oblò, e vide la curva abbagliante del levarsi del sole sul Temae, che proprio in quel momento si presentava alla vista.

— Riposerò su Anarres questa notte — egli pensò. — Riposerò accanto a Takver. Mi piacerebbe aver portato la fotografia, la piccola pecora, per darla a Pilun.

Ma non aveva portato nulla. Le sue mani erano vuote, come sempre.

FINE