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— Vai su Urras — disse Takver. La sua voce era così dura che Shevek arretrò come se avesse ricevuto uno schiaffo.

Takver non sostenne il suo sguardo, e ripeté, più piano: — Vai su Urras… Perché no? Laggiù ti vogliono. Qui non ti vogliono! Forse cominceranno a vedere cosa hanno perduto, quando te ne sarai andato. E tu hai voglia di andarci. Me ne sono accorta questa sera. Non ci avevo mai pensato, prima, ma quando abbiamo parlato del premio, a pranzo, me ne sono resa conto, dal modo in cui sorridevi.

— Io non ho bisogno di premi e compensi!

— No, ma hai bisogno di sentirti apprezzato, e di discutere, e di studenti… senza che ci sia attaccato nessun codicillo di tipo Sabul. E ascolta. Tu e Bedap parlate sempre di spaventare il CDP con l’idea che qualcuno vada su Urras per dimostrare il suo diritto all’auto-determinazione. Ma se ne parlate sempre e nessuno va, non fate altro che irrobustire la loro parte… dimostrate soltanto che il costume è infrangibile. Ora che avete portato la questione a una riunione del CDP, qualcuno dovrà andare. E quel qualcuno devi essere tu. Hanno chiesto che tu vada laggiù; hai una ragione per andare. Vai a prendere la tua ricompensa… il denaro che hanno messo da parte per te — terminò, con una risata improvvisa e genuina.

— Takver, io non ho voglia di andare su Urras!

— Sì, invece; so che l’hai, anche se non so bene perché.

— Be’, naturalmente mi piacerebbe conoscere alcuni dei fisici… e vedere i laboratori di Ieu Eun dove fanno esperimenti con la luce. — Pareva vergognoso di dirlo.

— È tuo diritto farlo — disse Takver, con fierezza e sicurezza. — Se è parte del tuo lavoro, dovresti andare.

— Contribuirebbe a tener viva la Rivoluzione… da entrambe le parti… non ti pare? — disse. — Che folle idea! Come nella commedia di Tirin, ma al contrario. Io che vado a sovvertire gli archisti… Be’, almeno dimostrerebbe loro che Anarres esiste. Parlano con noi alla radio, ma non penso che credano realmente in noi. In ciò che siamo.

— Se lo credessero, potrebbero spaventarsene. Potrebbero venire qui e cancellarci via dal cielo, se tu riuscissi davvero a convincerli.

— Non credo. Io potrei fare un’altra piccola rivoluzione nella loro fisica, ma non nelle loro idee. È qui, qui su Anarres, che io posso avere influenza sulla società, anche se qui non vogliono prestare attenzione alla mia fisica. Tu hai ragione. Ora che ne abbiamo parlato, dobbiamo farlo. — Ci fu una pausa. Poi disse: — Mi chiedo che tipo di fisica facciano le altre razze.

— Quali altre razze?

— Gli stranieri. Gente di Hain e di altri sistemi solari. Ci sono due ambasciate straniere su Urras: Hain e Terra. Sono stati gli Hainiti a inventare il motore interstellare che gli urrasiani usano oggi. Penso che lo darebbero anche a noi, se fossimo disposti a chiederlo. Sarebbe interessante… — Non terminò.

Dopo un’altra, lunga pausa, si voltò verso di lei e disse in tono diverso, sarcastico: — E tu, che cosa faresti mentre io andrei a visitare i proprietaristi?

— Andrei sulla costa di Sorruba con le bambine, a vivere una tranquilla vita di tecnico di laboratorio dei pesci. Fino al tuo ritorno.

— Ritorno? Non so se potrei ritornare.

Lei lo fissò negli occhi. — Che cosa te lo impedirebbe?

— Forse gli urrasiani. Potrebbero trattenermi. Laggiù nessuno è libero di andare e venire come gli pare, lo sai. O forse la nostra stessa gente. Potrebbero impedirmi di scendere. Alcuni, al CDP, hanno minacciato di farlo, oggi. Rulag era una di loro.

— Rulag lo farebbe. Rulag conosce soltanto la negazione. Soltanto come negare la possibilità del ritorno a casa.

— È perfettamente vero. La definisce completamente — disse lui, raddrizzando la schiena e fissando Takver con ammirazione. — Ma Rulag non è la sola, purtroppo. Per molte persone, chiunque andasse su Urras e cercasse di tornare indietro sarebbe semplicemente un traditore, una spia.

— E che cosa farebbero, concretamente?

— Be’, se convincessero la Difesa del pericolo, potrebbero abbattere la nave.

— E la Difesa sarebbe tanto stupida?

— Non credo. Ma chiunque, al di fuori della Difesa, potrebbe fare degli esplosivi con polvere da mina e far saltare la nave una volta atterrata. Oppure, com’è più probabile, assalirmi una volta che io sia sceso dalla nave. Credo che questa sia quasi una certezza. Dovrebbe venire inclusa in ogni progetto di viaggio di andata e ritorno nelle zone turistiche di Urras.

— E varrebbe la pena per te… affrontare il rischio?

Per un lungo istante, egli fissò nel vuoto. — Sì — disse. — In un certo senso varrebbe il rischio. Se potessi finire la teoria laggiù, e darla a loro… a noi, a loro, a tutti i mondi, capisci… mi piacerebbe farlo. Qui mi sento chiuso tra muri. Anchilosato. Mi è difficile lavorare, fare esperimenti, sono sempre senza strumenti, senza colleghi e senza studenti. E quando faccio il lavoro, non lo vogliono. Oppure, se lo vogliono, come Sabul, vogliono che io abbandoni l’iniziativa in cambio delle approvazioni. Useranno il lavoro che faccio, dopo che sarò morto: succede sempre così. Ma perché devo dare il lavoro di tutta la mia vita in regalo a Sabul, a tutti i Sabul, ai meschini, intriganti, avidi di un singolo pianeta? Io vorrei condividerlo. È un grande campo, quello in cui lavoro. Dovrebbe venire dato in giro, passato agli altri. Non c’è certamente il pericolo che si esaurisca!

— Allora, d’accordo — disse Takver. — Vale il rischio.

— Vale cosa?

— Il rischio. Di forse non poter tornare.

— Non poter tornare — egli ripeté. Fissò Takver con uno sguardo strano, profondo, eppure distratto.

— Penso che ci sia molta più gente dalla nostra parte, dalla parte del Gruppo, di quanto non pensiamo. Si tratta soltanto del fatto che finora non abbiamo ancora fatto molto… non abbiamo fatto nulla per raccoglierli… non abbiamo corso alcun rischio. Se tu corressi il rischio, credo che verrebbero ad aiutarti. Se tu aprissi la porta, fiuterebbero di nuovo l’aria pura, fiuterebbero la libertà.

— E potrebbero buttarsi di corsa a chiudere la porta.

— Se lo faranno, peccato per loro. Il Gruppo potrà difenderti quando atterrerai. E poi, se la gente sarà ancora così ostile e piena di odio, la manderemo all’inferno. Che vale una società anarchica che ha paura dell’anarchia? Andremo a vivere al Solitario, a Sedep Superiore, all’Infimo, andremo a vivere in solitudine sulle montagne, se occorrerà. C’è posto. Ci sarà gente che verrà con noi. Faremo una nuova comunità. Se la nostra società scivola verso la politica e la ricerca del potere, allora noi la lasceremo, faremo un’Anarres dopo Anarres, un nuovo inizio. Che ne dici?

— Bellissimo — disse lui, — bellissimo, cara. Ma io non andrò su Urras, lo sai.

— Oh, sì, invece. E tornerai — disse Takver. I suoi occhi erano molto scuri, un’oscurità morbida, come quella di una foresta nella notte. — Se decidi di farlo. Tu arrivi sempre dove ti proponi di andare. E torni sempre indietro.

— Non dire sciocchezze, Takver. Io non vado su Urras!

— Sono stanca — disse Takver, stirandosi e piegandosi per appoggiare la fronte contro il suo braccio. — Andiamo a dormire.