— Come mai questa idea?
— Perché volete stare in intimità, le coppie adulte hanno bisogno d’intimità.
— C’è Pilun.
— Pilun non conta.
— E neppure tu.
Sedik tirò su col naso, cercando di sorridere.
Quando giunsero alla luce della stanza, però, la faccia bianca e chiazzata di rosso, gonfia, della bambina, sorprese Takver, che disse: — Che cosa è successo? … — e Pilun, interrotta nel pasto, tolta bruscamente al suo stato di gioia, cominciò a gemere, e questo fece di nuovo piangere Sedik, e per qualche tempo si ebbe l’impressione che tutti piangessero, e si confortassero reciprocamente, e rifiutassero il conforto. Il tutto terminò quasi bruscamente in un completo silenzio, con Pilun sulle ginocchia della madre, Sedik su quelle del padre.
Quando la bambina piccola fu sazia e venne messa a dormire, Takver disse, a voce bassa ma tesa: — Allora, che cosa c’è?
Anche Sedik s’era per metà addormentata, appoggiando la testa sul petto del padre. Egli la sentì raccogliersi per rispondere. Le accarezzò i capelli per tenerla tranquilla, e rispose per lei. — Alcune persone al centro di apprendimento non ci approvano.
— E che accidenti di diritto hanno di disapprovarci?
— Ssst, ssst. Il Gruppo.
— Oh — disse Takver, con uno strano timbro gutturale; nello sbottonarsi la tunica, strappò, senza volerlo, il bottone. Abbassò gli occhi sul bottone, allargando il palmo. Poi guardò Shevek e Sedik.
— Da quanto va avanti?
— Un mucchio di tempo — disse Sedik, senza alzare la testa.
— Giorni, decadi, tutto il trimestre?
— Oh, più ancora. Ma diventano… Sono peggio, nel dormitorio, adesso. La notte. Terzol non le ferma. — Sedik parlava come una sonnambula, e in tono molto sereno, come se la questione non la riguardasse.
— E che cosa fanno? — chiese Takver, anche se un’occhiata di Shevek la avvertì di non insistere.
— Be’… mi trattano male, tutto qui. Non mi fanno entrare nei giochi e in tutto il resto. Tip, la conoscete, era mia amica, veniva sempre a parlare con me, una volta spente le luci. Ma ha smesso di farlo. Adesso nel dormitorio la sorella grande è Terzol, e non le… e dice: «Shevek è… Shevek è un…»
Egli la interruppe, accorgendosi della crescente tensione nel corpo della bambina, della ritrosia e del modo in cui cercava di raccogliere il proprio coraggio, una combinazione insopportabile: — Le dice: «Shevek è un traditore, Sadik è una egoizzatrice»… Sai benissimo che cosa le dice, Takver! — I suoi occhi fiammeggiavano. Takver venne avanti e toccò la guancia della figlia, una volta soltanto, in modo piuttosto timido. Disse, a bassa voce: — Sì, lo so — e andò a sedere sull’altra predella, di fronte a loro.
La bambina piccola, messa a dormire accanto al muro, russava leggermente. Le persone della camera accanto ritornarono a casa dalla mensa, si udì sbattere una porta, qualcuno nella piazza diede la buona notte ed ebbe risposta da una finestra aperta. Il grosso domicilio, duecento stanze, era desto, tranquillamente vivo intorno a loro; come la loro esistenza entrava nella sua, così la sua esistenza entrava nella loro, una parte di una totalità. Infine Sedik scivolò via dalle ginocchia del padre e si sedette sulla predella, al suo fianco, accanto a lui. I suoi capelli neri erano arruffati e le scendevano davanti agli occhi.
— Non volevo dirvelo perché… — la voce della bambina suonava sottile e bassa. — Ma diventa sempre peggio. Una spinge l’altra.
— Allora non devi più tornarci — disse Shevek. La circondò col braccio, ma lei gli resistette, rimase a sedere eretta.
— Se andassi a parlare io… — disse Takver.
— Non serve a niente. Non cambiano idea.
— Ma contro che cosa ci siamo messi? — chiese Takver, stupita.
Shevek non rispose. Continuò a circondare Sedik con il braccio, ed ella infine cedette, appoggiando la testa contro il suo braccio, con stanchezza, con pesantezza. — Ci sono altri centri d’apprendimento — disse infine, senza molta sicurezza.
Takver si alzò. Non riusciva a starsene ferma, e voleva fare qualcosa, agire. Ma non c’era molto da fare. — Lascia che ti pettini, Sedik — disse a bassa voce.
Pettinò i capelli della bambina e li dispose a treccia; poi misero il paravento in mezzo alla stanza e infilarono Sedik accanto alla bambina piccola, che dormiva. Sedik stava quasi per scoppiare un’altra volta in lacrime nel dare loro la buona notte, ma in meno di un quarto d’ora compresero dal suo respiro che si era addormentata.
Shevek si era seduto ai piedi della loro predella con un quaderno per appunti e la lavagna che usava per calcolare.
— Ho messo le pagine al manoscritto — disse Takver.
— Quante pagine erano?
— Quarantuna, con le appendici.
Egli annuì. Takver si alzò in piedi, guardò dietro il paravento le due bambine addormentate, ritornò e si sedette sull’orlo della predella.
— Sapevo che c’era qualcosa che non andava. Ma non mi aveva detto niente. Non mi ha mai detto niente, è stoica. Non pensavo che fosse così. Pensavo che fosse soltanto un nostro problema, non mi è venute in mente che potessero prendersela con i nostri figli. — Takver parlava piano, con amarezza. — Aumenta, aumenta sempre più… Pensi che in un’altra scuola sarebbe differente?
— Non so. Se passerà molto tempo con noi, probabilmente no.
— Non vorrai mica dire che…
— No. Ho solo detto una realtà di fatto. Se scegliamo di dare alla bambina l’intensità dell’amore individuale, non possiamo evitarle ciò che gli si accompagna, il rischio del dolore. Dolore da noi, e attraverso di noi.
— Non è giusto che debba essere tormentata per ciò che facciamo noi. È così brava, così gentile, è come l’acqua chiara… — Takver tacque, soffocata da un breve accesso di lacrime, si asciugò gli occhi, strinse le labbra.
— Non è «ciò che facciamo noi». È ciò che faccio io. — Abbassò il quaderno. — Anche tu hai sofferto per questo.
— Non m’importa quello che pensano.
— Sul lavoro?
— Posso scegliere un altro posto.
— Non qui, non nel tuo campo.
— Be’, vuoi che vada da un’altra parte? I laboratori di Sorruba a Pace e Abbondanza mi prenderebbero. Ma tu dove andresti? — Lo fissò. — Resteresti qui, penso.
— Potrei venire con te. Skovan e gli altri studiano lo iotico, tra un po’ saranno in grado di occuparsi della radio, ed è questa attualmente la mia principale funzione al Gruppo. Posso occuparmi di fisica a Pace a Abbondanza come qui. Ma a meno che io non mi tolga direttamente dal Gruppo dell’Iniziativa, questo non risolve il problema, no? Il problema sono io. Sono io quello che dà origine ai fastidi.
— Darebbero peso alla cosa, in un piccolo paese come Pace e Abbondanza?
— Temo di sì.
— Shevek, quanto di questo odio hai già incontrato tu? Anche tu sei rimasto zitto, come Sedik?
— E come te. Be’, a volte. Quando sono andato a Concordia, la scorsa estate, le cose sono state un po’ peggiori di quanto non ti abbia detto. Hanno tirato pietre e c’è stata anche baruffa. Gli studenti che mi avevano chiesto di andare hanno dovuto fare a pugni per difendermi. Ma io me ne andai subito; li mettevo in pericolo. Be’, gli studenti amano il pericolo. E dopotutto abbiamo chiesto noi la rissa, abbiamo deliberatamente agitato la gente. E c’è un mucchio di gente con noi. Ma ora… ora comincio a chiedermi se non metto in pericolo te e i bambini, Takver. Rimanendo con voi.
— Tu non sei in pericolo, vero? — disse lei, con violenza.
— Io l’ho chiesto. Ma non avevo pensato che avrebbero esteso a voi il loro risentimento tribale. Il sentimento che provo verso il vostro pericolo non è come quello che provo verso il mio.
— Altruista!
— Forse. Non posso farci nulla. Mi sento responsabile, Takver. Senza di me, voi potreste andare dove volete, o rimanere qui. Tu hai lavorato per il Gruppo, ma la cosa che ti rimproverano è la tua fedeltà a me. Io sono il simbolo. Perciò non c’è nessun posto… dove potrei andare.