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Tornati nella stanza illuminata, Gwen e Dirk si lasciarono cadere per terra, mentre Jaan rimase un istante sulla porta col volto pensieroso. Poi posò le sue armi ed aprì una bottiglia di vino, lo stesso vino aspro che aveva bevuto con Garse e Dirk la notte precedente al duello che non venne mai fatto. Riempì tre bicchieri e li passò agli altri. «Bevete», disse, sollevando il suo bicchiere in un brindisi. «Stiamo arrivando ad una conclusione. Ormai rimane solo Bretan Braith. Presto raggiungerà il suo Chell, oppure io sarò con Garse ed in entrambi i casi avremo la pace». Scolò il bicchiere in fretta. Gli altri sorseggiarono.

«Ruark dovrebbe bere con noi», annunciò Vikary improvvisamente e riempì di nuovo il suo bicchiere. Il Kimdissi non li aveva accompagnati al loro incontro di mezzanotte. Comunque, la sua riluttanza non pareva essere stata dettata dalla paura; per lo meno, Dirk non l’aveva pensata così in quel momento. Jaan aveva convocato anche lui e Ruark si era vestito assieme agli altri, si era infilato il suo più bel vestito di seta ed un berrettino scarlatto, ma quando Vikary gli aveva dato un fucile, prima di uscire, lui si era limitato a fissarlo con un sorriso curioso, poi glielo aveva restituito. Quindi aveva detto: «Ho anch’io il mio codice, Jaantony, e tu devi rispettarlo. Grazie, ma penso che resterò qui». Disse la frase con tranquilla dignità; sotto i capelli biondi e bianchi, i suoi occhi parevano quasi allegri. Jaan gli disse di continuare la guardia dalla torre e Ruark acconsentì.

«Arkin odia il vino Kavalar», disse stancamente Gwen, rispondendo al suggerimento di Jaan.

«La cosa non ha importanza», rispose Jaan. «Questa non è una festa, ma un rito tra kethi. Dovrebbe bere con noi». Mise giù il bicchiere di vino e salì la scala che portava alla torre con movimenti eleganti.

Quando ritornò un istante dopo, era molto meno elegante. Piombò giù per l’ultimo metro e rimase immobile a fissarli. «Ruark non berrà con noi», dichiarò. «Ruark si è impiccato».

Al sorgere di quella particolare alba, l’ottava della loro veglia, fu Dirk che uscì a passeggiare.

Non entrò nella vera e propria Larteyn. Invece fece il giro delle mura della città. Erano larghe tre metri, di pietra nera coperta in alto da spesse lastre di pietraluce, sicché non c’era pericolo di cadere. Dirk era da solo di guardia (Gwen aveva tagliato la corda che sosteneva il corpo di Ruark e poi aveva portato Jaan a letto), osservava da quelle mura tenendo il laser in mano, inutilizzato ed il binocolo attorno al collo, quando il primo dei soli gialli salì nel cielo facendo svanire i fuochi della notte. Improvvisamente aveva sentito che doveva fare in fretta. Sapeva che Bretan Braith non sarebbe ritornato in città; ormai fare la guardia era diventata una formalità inutile. Appoggiò il fucile al muro, vicino alla finestra, indossò un abito pesante ed uscì fuori.

Fece un lungo tratto di strada. C’erano alte torri di guardia, per lo più come quella dove stavano loro, poste ad intervalli regolari. Ne superò sei e stimò che la distanza fra una torre e l’altra doveva grosso modo essere di un terzo di chilometro. Ogni torre aveva una cariatide e nessuna cariatide era uguale all’altra, notò. Poi, improvvisamente, le riconobbe. Quelle figure non erano tradizionali, non erano affatto prodotti di Vecchia Terra; erano i demoni del mito Kavalar, grottesche versioni mitizzate dei Dattiloidi, degli Hruun e dei succhiatori d’anima Githyanki. In un certo senso erano tutte reali. Da qualche parte tra le stelle, tutte quelle razze erano ancora vive.

Le stelle. Dirk si fermò ed alzò gli occhi. Occhiodaverno aveva cominciato a spuntare sull’orizzonte; quasi tutte le stelle erano già scomparse. Ne vide solo una; debolissima, una capocchia di spillo rossa striata da riccioli di nubi grigie. Scomparve mentre la guardava. La stella di Alto Kavalaan, pensò lui. Garse Janacek gliela aveva mostrata, un punto di riferimento per la sua fuga.

Comunque c’erano poche stelle lassù. Questi non erano posti in cui potessero vivere gli uomini, questi mondi come Worlorn, Alto Kavalaan e Cupalba, questi mondi esterni. Il Grande Mare Nero era troppo vicino ed il Velo Tentatore nascondeva la maggior parte della galassia, sicché i cieli erano cupi e vuoti. Un cielo doveva avere delle stelle.

Del resto un uomo doveva avere un suo codice. Un amico, un teyn, una giusta causa… qualcosa che andava al di là di se stesso.

Dirk camminò fino al bordo esterno delle mura e guardò giù. Era uno strapiombo lungo, lunghissimo. La prima volta che aveva superato le mura con un aeroscooter, aveva perso l’equilibrio, proprio perché aveva guardato giù. Le mura scendevano per un bel tratto e più in basso c’era il dirupo che non finiva più ed in fondo c’era un fiume che scorreva tra prati verdi e nebbie mattutine.

Rimase in piedi con le mani in tasca mentre il vento gli scompigliava i capelli e rabbrividì un po’. Era immobile e guardava. Poi tirò fuori la sua gemma mormorante. La soffregò tra pollice e indice, come se fosse un portafortuna. Jenny, pensò. Dove era andata? Nemmeno il gioiello era riuscito a riportargliela indietro.

Risuonarono dei passi vicini a lui, poi una voce. «Onore alla tua granlega, onore al tuo teyn».

Dirk si voltò, con la gemma mormorante ancora in mano. C’era un vecchio vicino a lui. Alto come Jaan e vecchio come il povero Chell morto. Era massiccio e leonino, con una testa di capelli bianchi come la neve, spettinati, che si univano ad una barba ugualmente tempestosa a formare una magnifica criniera. Eppure il suo viso era stanco e sbiadito come se si fosse consumato in un periodo di secoli. Solo gli occhi risaltavano; erano intensi, occhi follemente azzurri, occhi come quelli che aveva avuto Garse Janacek, che bruciavano di febbre gelida sotto le sopracciglia cespugliose.

«Non ho granlega», disse Dirk, «e non ho nemmeno teyn».

«Mi dispiace», disse l’uomo. «Vieni da un altro mondo, eh?».

Dirk fece un inchino.

Il vecchio ridacchiò. «Be’, allora vaghi per la città sbagliata, spettro».

«Spettro?».

«Uno spettro del festival», disse il vecchio. «Cos’altro potresti essere? Questo è Worlorn ed i vivi se ne sono andati tutti». Indossava un mantello nero di lana con enormi tasche, gli altri abiti erano di un pallido blu. Un pesante disco di acciaio inossidabile era appeso sotto la sua barba, sospeso ad una cinghia di cuoio. Quando tolse le mani dalle tasche del mantello, Dirk vide che gli mancava un dito. Non portava braccialetti.

«Tu non hai teyn», disse Dirk.

Il vecchio borbottò: «Naturalmente avevo un teyn, spettro. Io ero un poeta, non un prete. Che razza di domanda è mai questa? Attento. Potrei accusare insulto».

«Non porti il ferro-e-fuoco», sottolineò Dirk.

«Abbastanza vero, però che importa? Gli spettri non hanno bisogno di gioielli. Il mio teyn è morto da trent’anni e vaga per qualche granlega laggiù in Rossacciaio, immagino, ed io sono qui che vago per Worlorn. Be’, se devo dire la verità, solo per Larteyn. Vagare per un intero pianeta deve essere proprio stancante».

«Ah», disse Dirk sorridendo. «Allora anche tu sei uno spettro?».

«Be’, sì», rispose il vecchio. «Eccomi qui, a parlare con te perché mi mancano delle robuste catene da strascicare. Tu chi pensi che io sia?».

«Io penso», disse Dirk, «penso che tu potresti soltanto essere Kirak Rossacciaio Cavis».

«Kirak Rossacciaio Cavis», ripeté il vecchio con una strana burbera cantilena. «Lo conosco. Uno spettro come pochi altri. Il suo particolare destino è quello di occupare il cadavere della poesia Kavalar. Va in giro di notte ad ululare recitando versi tratti dai lamenti di Jamis-Leone Taal ed alcuni dei migliori sonetti di Erik Alto-Ferrogiada Devlin. Durante la luna piena canta gli inni di battaglia di Braith e qualche volta i canti funebri degli antichi cannibali dei Siti del Carbone Profondo. Uno spettro, infatti ed anche molto patetico. Quando vuole tormentare in modo particolare una delle sue vittime, lui le recita qualcuno dei suoi versi, ti assicuro che quando hai sentito una volta Kirak Rossacciaio, le catene strascicate sono molto meglio».