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Ero appena arrivato a: — Avanziamo dunque uniti, con la libertà per tutti… — quando udii uno strano rumore alle mie spalle.

— Onorevole Bonforte! — gridai. — Professore! Professore! Svelto!

L’onorevole Bonforte annaspava verso di me con la destra, come a richiamare la mia attenzione, e apriva penosamente la bocca nell’inutile sforzo di dirmi qualcosa d’importante. Ma non ci riuscì; la sua povera bocca si rifiutò di servirlo, e la sua indomita forza di volontà non riuscì a farsi obbedire dal corpo ormai troppo provato.

Lo presi tra le braccia, ma ormai era già entrato in respirazione Cheyne-Stokes e dopo pochi istanti sopraggiunse la fine.

Dak e Capek riportarono la salma nella sua stanza con l’ascensore. Io non sarei stato capace di muovere un dito. Dak venne a darmi un’affettuosa manata sulla spalla, poi se ne andò. Penny era già scesa con gli altri. Dopo un po’ uscii sulla balconata. Sentivo il bisogno di un po’ d’"aria fresca", anche se lì c’era la stessa aria della sala, pompata attraverso il sistema di condizionamento. Tuttavia sembrava un poco più fresca sulla terrazza.

L’avevano ucciso. I suoi nemici l’avevano ucciso, proprio come se gli avessero piantato un coltello nella schiena. Nonostante tutto quello che avevamo fatto, nonostante i rischi che avevamo corso, alla fine erano riusciti ad assassinarlo. "Mai crimine fu più scellerato!"

Mi sentivo annientato, istupidito dal colpo. Avevo visto morire "me stesso", avevo rivisto morire mio padre. Capivo, in quel momento, perché quando muore un fratello siamese è così difficile che l’altro si salvi. Ero come svuotato.

Non so per quanto tempo restai lì, solo. Ricordo che d’improvviso sentii la voce di Rog chiamare: — Capo?

Mi volsi. — Rog — gli dissi con intensità — non mi chiami così, la prego.

— Capo — insisté lui — lei sa quello che le resta da fare, no?

Provai un senso di vertigine e mi parve che il suo viso si nascondesse dietro un velo di nebbia. Non sapevo a che cosa stesse alludendo… non volevo saperlo.

— Cosa intende dire?

— Capo… un uomo muore, ma lo spettacolo continua. Lei non può lasciarci ora.

La testa mi doleva; continuavo a vedere tutto confuso. Mi sembrava che Rog ondeggiasse avanti e indietro, e da lontano mi giungeva la sua voce: — … gli hanno strappato la possibilità di completare la sua opera. Deve dunque farlo lei al posto suo. Lei deve farlo rivivere!

Scossi la testa facendo un grande sforzo per rientrare in me e per rispondergli. — Rog — dissi lentamente, con voce stanca — lei non si rende conto di quello che dice. È assurdo. È ridicolo! Io non sono un uomo di Stato, ma soltanto un miserabile attore. Faccio delle smorfie per far ridere il pubblico, non sono capace di fare altro.

Con mio grande orrore, m’accorsi che stavo pronunciando quelle parole con la voce di Bonforte.

Rog mi guardò fisso. — Mi pare che fino a questo momento lei se la sia cavata benissimo.

Sforzandomi di ritornare alla mia vera voce, di riprendere il controllo della situazione, risposi: — Rog, lei è sconvolto. Non sa quel che dice. Quando sarà ritornato in condizioni normali, si renderà conto lei stesso dell’assurdità della sua richiesta. Lei ha ragione: lo spettacolo deve continuare. Ma non nel modo che dice lei. La cosa giusta da fare, l’unica cosa da fare, è che lei stesso diventi capo del Partito. L’elezione è vinta, avete la maggioranza; ora potete formare il nuovo Governo e passare a svolgere il vostro programma.

Mi guardò a lungo, poi scosse tristemente la testa. — Lo farei, se potessi, lo confesso. Ma non posso. Capo, ricorda quelle maledette riunioni del Comitato Direttivo? Era lei a tenerli a freno. Tutta la Coalizione è rimasta insieme grazie alla forza magnetica e al polso fermo d’un solo uomo. Se ora lei ci verrà a mancare, tutti gli ideali per cui lui è vissuto… ed è morto… cadranno a pezzi.

Non sapevo cosa rispondere. Forse Rog aveva ragione: nel corso del mese e mezzo precedenti avevo potuto vedere i complessi ingranaggi della politica. — Rog, anche se quello che dice è vero, la soluzione che mi prospetta è impossibile. Siamo riusciti a malapena a tener in piedi questa finzione mostrandomi solo in talune condizioni che erano frutto d’una attenta regia… e c’è mancato poco che ci scoprissero. Ma quanto a portare avanti la sostituzione una settimana dopo l’altra, un mese dopo l’altro, un anno dopo l’altro, se capisco bene quello che lei intende dire… no, non si può fare. È assolutamente impossibile. Io non posso farcela!

— Sì che lei può! — Si piegò verso di me e mi disse con convinzione: — Ne abbiamo discusso tra noi, e ne conosciamo i rischi quanto lei. Ma lei avrà la possibilità di perfezionarsi gradualmente. Intanto, come inizio, due settimane nello spazio… diavolo, anche un mese, se vuole! Studierà per tutto il tempo: i suoi giornali, i suoi diari, i suoi quaderni d’appunti. S’immergerà in essi, e noi le saremo sempre accanto per aiutarla.

Non risposi. Egli continuò: — Vede, Capo, lei ha imparato che un personaggio politico non è un singolo uomo: è una squadra… una squadra tenuta insieme da uno scopo comune e da comuni convinzioni. Abbiamo perso il capitano della nostra squadra e ora ce ne occorre un altro. Ma la squadra c’è sempre.

Anche Capek era insieme a noi, sul balcone. Solo allora mi accorsi della sua presenza. — È anche lei dello stesso parere? — gli domandai.

— Sì.

— È suo dovere — aggiunse Rog.

Capek disse lentamente: — Non vorrei arrivare a dire questo. Ma spero che lei sia disposto a farlo. Però, accidenti, non intendo fare la parte della sua coscienza. Credo ancora nel libero arbitrio, per quanto possa sembrare superficiale questa affermazione sulle labbra d’un medico. — Si voltò verso Clifton. — È meglio che noi lo lasciamo, Rog. Lo sa anche lui. Sono decisioni che un uomo deve prendere da solo.

Ma, anche se se n’erano andati, non ero rimasto solo. Era sopraggiunto Dak. Con mio grande sollievo, non mi chiamò "Capo"; gliene fui riconoscente.

— Salve, Dak.

— Salve. — Rimase in silenzio per un istante, a fumare e a guardare le stelle. Poi si voltò verso di me. — Vecchio marpione, ne abbiamo viste delle belle, insieme! — cominciò. — Adesso la conosco bene, e sono disposto per l’avvenire ad aiutarla senza fare domande, sia con la pistola che col denaro o con i pugni. Se lei preferisce andarsene via adesso, non gliene farò certo un rimprovero; continuerò lo stesso a pensar bene di lei. Lei ha fatto anche troppo.

— Oh, grazie, Dak.

— Una sola parola, prima che me la squagli. Se lei decide di non farlo, quei farabutti che gli hanno lavato il cervello avranno vinto. Nonostante tutto avranno vinto.

Ritornò nella sala.

Ero sconvolto, confuso, dibattuto, incerto… mi lasciai andare all’autocommiserazione. Non era giusto! Avevo ancora la mia vita da vivere. Ero al vertice della mia abilità professionale e i massimi trionfi mi attendevano. Non era leale chiedermi di seppellirmi, forse per anni interi, nell’anonimato della sostituzione di un altro uomo… mentre il pubblico pian piano si dimenticava di me, gli impresari e gli agenti scordavano il mio nome, finendo forse per credermi morto.

Non era leale. Era chiedere troppo.

Poi allontanai da me questi pensieri, e per qualche tempo non pensai a nulla. La madreterra continuava a brillare nel cielo, serena, meravigliosa, immutabile. Mi chiedevo come potesse svolgersi laggiù la notte dell’elezione. Marte, Giove e Venere erano tutti in vista, appesi sullo zodiaco come medaglie. Naturalmente non riuscivo a vedere Ganimede e neppure la solitaria colonia sulla superficie del lontano Plutone.

"I mondi della speranza", li aveva chiamati Bonforte. Ma Bonforte era morto. Non c’era più. Gli avevano strappato il diritto di vivere che aveva acquisito con la nascita, gliel’avevano tolto proprio quando era giunto nella matura pienezza delle sue forze. Era morto.