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Dak era al fianco di Rog, chino su un calcolatore; Rog aveva davanti a sé un grosso foglio di carta su cui stava facendo calcoli servendosi di una complicata formula bilanciata di sua invenzione. Una decina dei più potenti cervelli elettronici del Sistema Solare stavano eseguendo gli stessi calcoli, quella notte, ma Rog si fidava soltanto delle sue congetture. Una volta Rog aveva affermato di riuscire a passare per una circoscrizione, di "annusare" l’aria, e d’arrivare a un risultato che non si discostava più del due per cento da quello giusto. Credo che dicesse il vero.

Il professor Capek rimaneva tranquillamente seduto, le spalle appoggiate allo schienale, le mani sulla pancia, rilassato come un bruco. Penny non faceva che camminare avanti e indietro, mettendo a posto le cose in disordine e viceversa, e portandoci da bere. Evitava accuratamente di guardare sia me che l’onorevole Bonforte.

Era la prima volta che partecipavo a un party della notte dell’elezione. Queste festicciole sono diverse da qualsiasi altra. Si ha una sensazione calda, intima, dove tutte le passioni si sono consumate. In definitiva non ha poi molta importanza la decisione degli elettori: avete fatto del vostro meglio, siete in mezzo agli amici e ai conoscenti, e per un certo periodo non c’è nessuna preoccupazione, nessuna tensione, nonostante una certa eccitazione comune per i risultati che stanno per giungere. È come quando la torta è ormai cotta: occorre solo metterci lo zucchero vanigliato.

Non ricordavo d’avere avuto da molto tempo dei momenti così tranquilli.

Rog alzò gli occhi, mi osservò, poi parlò all’onorevole Bonforte: — Questi risultati dell’Europa hanno gli alti e bassi di un’altalena. Gli americani stanno immergendo la punta del piede prima di venire in massa dalla nostra parte; si chiedono: "Quanto sarà profonda quest’acqua?".

— Può già fare una previsione, Rog?

— Non ancora. Sì, il voto popolare è nostro, ma se si vanno a calcolare i seggi alla Grande Assemblea, al momento attuale potrebbe ancora esserci una maggioranza di una decina di rappresentanti sia per noi che per loro. — Si alzò. — Forse è meglio che vada a fare un giro in città.

A dire il vero, ci sarei dovuto andare io, nelle mie vesti di "onorevole Bonforte". È infatti naturale che il leader politico si faccia vedere alla sede del Partito per qualche momento, nella notte dell’elezione. Ma io non mi ero mai fidato d’entrare nella sede, perché è uno di quei posti dove trovi sempre qualcuno che t’attacca bottone, imprevedibilmente: lì la mia sostituzione correva il rischio di farsi scoprire. La "malattia" mi aveva sempre fornito una scusa per non andarci durante la campagna elettorale; nella notte dell’elezione non valeva il rischio di fare atto di presenza, e così sarebbe andato Rog al posto mio, a stringere mani, a fare sorrisi, e a prestarsi agli abbracci e ai pianti commossi delle attiviste che s’erano sobbarcate la parte più dura e interminabile del lavoro d’ufficio. — Tornerò tra un’ora.

La nostra piccola festicciola si sarebbe dovuta svolgere sotto, al piano inferiore, e avrebbero dovuto parteciparvi tutti gli impiegati dell’ufficio, soprattutto Jimmie Washington; ma non lo si sarebbe potuto fare senza escluderne automaticamente lo stesso onorevole Bonforte. Anche gli impiegati, naturalmente, stavano facendo una festicciola identica alla nostra. Mi alzai. — Rog — dissi — vengo anch’io a salutare le ragazze di Jimmie.

— Come? Non ce n’è bisogno, lo sa.

— Sì, ma mi pare che sarebbe la cosa giusta da fare, no? E poi non mi dà nessun fastidio, e non mi pare comporti dei rischi. — Mi volsi verso l’onorevole Bonforte. — Lei che ne pensa, signore?

— Ne sarei felicissimo.

Scendemmo con l’ascensore e attraversammo le stanze deserte e silenziose dell’appartamento, poi passammo per il mio ufficio e per quello di Penny. Al di là di quella porta c’era una specie di manicomio. Un ricevitore stereo, portato lì per seguire i risultati, berciava a pieno volume; per terra era pieno di cicche e di bicchieri di carta sporchi, e tutti stavano fumando, o bevendo, o tutt’e due le cose. Perfino Jimmie Washington reggeva un bicchiere in mano mentre ascoltava i risultati. Si limitava solo a reggerlo, a dire il vero: Jimmie era astemio e non fumava. Senza dubbio glielo doveva avere passato qualcuno, e lui l’aveva tenuto; Jimmie aveva un senso molto sviluppato: quello "della cosa giusta al momento giusto".

Feci il giro delle stanze, sempre con Rog al fianco, fermandomi a scambiare qualche parola con questo e con quello, e ringraziai con particolare calore e sincerità Jimmie Washington. Poi, accusando molta stanchezza, mi accinsi a congedarmi. — Vado di sopra a riposarmi un po’, Jimmie. Vuole scusarmi lei presso gli altri?

— Certo, signore. Lei dovrebbe prendersi un po’ più cura di sé, se posso dirlo, signor Primo Ministro.

Risalii quindi nel salotto panoramico, mentre Rog invece usciva verso le gallerie pubbliche e la sede del Partito.

Appena uscii dall’ascensore, vidi Penny venirmi incontro in punta di piedi, con il dito indice sulle labbra. Bonforte s’era assopito e avevano messo al minimo l’audio dello stereovisore. Dak era seduto davanti alle immagini e riempiva di cifre un foglio di carta, in attesa del ritorno di Rog. Capek non s’era mosso. Mi fece un segno col capo e levò verso di me il bicchiere.

Accettai da Penny uno scotch con soda, poi uscii nella terrazza belvedere. Era notte, tanto d’orologio quanto di fatto, e la Terra era quasi piena, accecante in mezzo a una miriade di stelle scintillanti come gemme. Scorsi l’America del Nord e cercai d’individuare la piccola macchia da cui m’ero allontanato solo poche settimane prima; mi sforzai di non lasciarmi sopraffare dalla commozione.

Poco dopo, ritornai nel salotto: sulla Luna la notte fa un effetto troppo sconvolgente. Rog ritornò dopo qualche decina di minuti e si rimise sopra i suoi calcoli senza dire parola. Mi accorsi che Bonforte era di nuovo sveglio.

Cominciavano a giungere i risultati decisivi, e tutti rimanevano in silenzio per permettere a Rog con la sua matita e a Dak con il suo regolo di lavorare senza essere disturbati. Dopo un lungo, lunghissimo intervallo Rog spinse indietro la sedia. — Ci siamo, Capo — disse, senza alzare gli occhi. — Siamo in vincita. Una maggioranza di almeno sette seggi, probabilmente diciannove, forse anche trenta.

Dopo una pausa, Bonforte domandò tranquillamente: — Ne è sicuro?

— Sicurissimo. Penny, per favore, cambi canale, così controlliamo.

Io andai a sedermi accanto a Bonforte. Avevo la gola chiusa e non riuscivo a parlare. Lui mi dette un colpetto paterno sulla mano e tutt’e due restammo con lo sguardo fisso sullo stereovisore. La prima stazione che Penny riuscì a captare stava dicendo: — … alcun dubbio, amici. Otto cervelli elettronici dicono di sì. Il CURIAC dice forse. Il Partito espansionista ha ottenuto una decisiva… — Penny passò a un altro canale.

— … conferma per i prossimi cinque anni il suo mandato provvisorio. Non riusciamo a metterci in contatto con l’onorevole Quiroga per ottenere dichiarazioni, ma il suo organizzatore generale, da noi intervistato a New Chicago, afferma che non è più possibile che s’inverta l’attuale…

Rog si alzò per andare al visifono; Penny abbassò l’audio dello stereovisore perché non lo disturbasse. Restammo a guardare l’annunciatore muovere la bocca; probabilmente ripeteva con parole diverse le cose che già conoscevamo.

Rog ritornò, e Penny aumentò di nuovo il volume. L’annunciatore parlò per un istante, poi si fermò, lesse qualcosa su un foglio di carta che qualcuno gli aveva passato, rialzò la testa con un largo sorriso. — Amici e concittadini! Ora lascio la parola al Primo Ministro per una comunicazione!

La sua immagine scomparve e fu sostituita dal mio discorso di vittoria.

Rimasi a guardarmi, raggiante; provavo un complesso d’emozioni confuse e commosse, tutte d’una soddisfazione quasi dolorosa. Avevo messo molto impegno in quel discorso, e lo sapevo; avevo un aspetto stanco, sudato, ma avevo anche un’espressione di tranquillo trionfo. Suonava proprio adatto all’occasione.