Per prima cosa controllò con l'ufficiale di servizio la situazione e le condizioni dell'Ariel, che risultarono piacevolmente tranquille. Stavano attraversando il sistema di una stella azzurra fra due punti di balzo lungo la rotta per Escobar, una zona di spazio spopolata e vuota di tutto con la sola eccezione di un raro traffico commerciale, e dalla direzione del Gruppo Jackson non si vedeva traccia di inseguitori. Consumò quindi un pasto leggero senza sapere con certezza se si trattasse della colazione, del pranzo o della cena, perché dopo il periodo trascorso a terra i suoi ritmi biologici si erano del tutto alterati rispetto al ciclo di bordo. Quando ebbe finito andò a cercare Thorne e Nicol e li trovò nella Sezione Ingegneria, dove un tecnico stava finendo di eliminare le ultime ammaccature della poltrona antigravitazionale della quaddie.

Nicol, che indossava adesso una tunica bianca e corti calzoncini con ricami rosa, giaceva sdraiata prona su una panca da dove osservava con interesse le riparazioni, e vederla fuori della sua poltrona diede a Miles una strana sensazione, come vedere un granchio fuori del guscio o una foca arenata sulla spiaggia. Esposta ad un'unità di forza gravitazionale la quaddie appariva singolarmente vulnerabile, mentre in assenza di gravità sembrava così a proprio agio che si cessava ben presto di notare la stranezza del suo secondo paio di braccia. Infine Thorne aiutò il tecnico a riposizionare il rivestimento azzurro della poltrona intorno al meccanismo antigravitazionale ormai riparato e lo lasciò a ultimare l'operazione, girandosi verso Miles per salutarlo.

– A quanto pare – commentò questi, sedendosi sulla panca accanto a Nicol, – non dovremmo correre il rischio di inseguimenti da parte del Barone Fell. Per qualche tempo lui e il suo fratellastro saranno occupati a vendicarsi uno dell'altro. A pensarci mi sento felice di essere figlio unico.

– Hmm – commentò lei, in tono pensoso.

– Adesso dovresti essere al sicuro – aggiunse Thorne, in tono incoraggiante.

– Oh… no, non si tratta di questo – replicò Nicol. – Stavo pensando alle mie sorelle: c'è stato un tempo in cui non vedevo l'ora di essere lontana da loro, mentre ora sono impaziente di rivederle.

– Quali sono i tuoi progetti?

– Mi fermerò prima ad Escobar. È un buon nesso di passaggio e di là dovrei essere in grado di pagarmi lavorando il viaggio fino alla Terra, per raggiungere poi Orient IV, da dove sono certa di poter arrivare a casa.

– Allora adesso la tua meta è tornare a casa?

– Da questo lato di Escobar c'è una parte di galassia molto più grande da vedere – sottolineò Thorne. – Non sono certo che i ruolini di servizio dendarii possano essere allargati fino a comprendere anche una musicista di bordo, ma…

Nicol stava però scuotendo il capo.

– Vado a casa – dichiarò con fermezza. – Sono stanca di lottare di continuo contro la forza di gravità e comincio ad avere incubi in cui mi crescono le gambe.

Thorne si lasciò sfuggire un tenue sospiro.

– Fra noi c'è anche una piccola colonia di gente che vive in condizione di gravità – aggiunse Nicol, fissandolo. – Hanno attrezzato il loro asteroide con la gravità artificiale… è proprio come vivere su un pianeta, solo che ci sono meno correnti d'aria.

Miles fu assalito da un leggero senso di allarme… perdere un comandante di astronave la cui fedeltà era stata ampiamente dimostrata…

– Ah – replicò Thorne, in un tono altrettanto pensoso quanto quello della quaddie, – la tua cintura di asteroidi è molto lontana dalla mia casa.

– Allora un giorno tornerai alla Colonia Beta? – domandò Nicol. – Oppure i Mercenari Dendarii sono la tua casa e la tua famiglia?

– Non sono un tipo così appassionato – affermò Thorne. – Resto con loro soprattutto a causa di una incontrollabile curiosità di vedere cosa succederà la prossima volta.

E nel parlare scoccò uno strano sorriso in direzione di Miles.

Aiutò quindi Nicol a risalire sulla sua poltrona azzurra, e dopo un breve controllo dei sistemi lei si librò di nuovo nell'aria, altrettanto mobile quanto i suoi compagni a due gambe… o forse addirittura di più.

– Raggiungeremo l'orbita di Escobar fra tre giorni soltanto – avvertì quindi Thorne, con rincrescimento. – Comunque sono settantadue ore, equivalenti a 4320 minuti. Quante cose riesci a fare in 4320 minuti?

O quanto spesso? pensò Miles. Soprattutto se si tralascia di dormire? Se non si era sbagliato nel riconoscere i segni, il sonno non era certo quello che Thorne aveva in mente… quindi buona fortuna, ad entrambi.

– Nel frattempo – proseguì Thorne, guidando Nicol verso il corridoio, – lascia che ti mostri la mia nave. È di costruzione illirica… un pianeta alquanto lontano dai tuoi asteroidi, se ben ricordo. Il modo in cui l'Ariel è finita nelle mani dei Mercenari Dendarii costituisce una storia notevole… a quell'epoca eravamo conosciuti come i Mercenari Oserani…

Nicol accompagnò le sue parole con qualche mormorio d'incoraggiamento mentre Miles soffocava un sorriso pieno d'invidia e si allontanava nella direzione opposta per andare in cerca del Dottor Canaba ed organizzare le modalità per espletare il suo ultimo, sgradevole dovere.

Quando la porta dell'infermeria scivolò di lato Miles posò con aria riflessiva l'ipospray che stava rigirando fra le mani e fece ruotare la poltrona su cui sedeva nel momento in cui Taura e il Sergente Anderson facevano il loro ingresso.

– Mio Dio - mormorò.

– A rapporto come ordinato, signore – scandì il Sergente Anderson, accennando un saluto.

Taura contrasse una mano, incerta se tentare di imitare il saluto militare oppure no, e nel guardarla Miles sentì affiorargli sulle labbra un involontario sorriso di soddisfazione, perché la trasformazione che la ragazza aveva subito era ancora superiore a quanto aveva immaginato.

Non sapeva come Anderson fosse riuscita a persuadere il computer della fureria ad alterare i suoi normali parametri, ma in qualche modo lo aveva costretto a fornire una divisa dendarii completa della taglia di Taura: una linda giacca grigia e bianca, calzoni grigi e lucidi stivali fino alla caviglia. Adesso il volto e i capelli di Taura erano talmente puliti da rivaleggiare per lucentezza con gli stivali e la capigliatura tirata all'indietro in una strana treccia che le si raccoglieva sulla nuca senza che si riuscisse a vedere dove terminava, aveva inattesi riflessi mogano.

Sebbene il suo aspetto non fosse pasciuto, la ragazza non era comunque più denutrita e i suoi occhi apparivano luminosi e interessati, diversi dai due bagliori dorati semisepolti nelle orbite cavernose che lui aveva visto inizialmente. Anche da quella distanza, inoltre, era evidente che la reidratazione e la possibilità di lavarsi i denti e le zanne avevano eliminato il fetore causato al suo alito dai numerosi giorni trascorsi nello scantinato di Ryoval nutrendosi soltanto di topi crudi. Le grandi mani erano adesso libere dalla sporcizia che le incrostava e… tocco davvero ispirato… le unghie simili ad artigli erano state pulite, appuntite .e coperte con un iridescente smalto perlaceo che s'intonava perfettamente alla divisa grigio-bianca. Di certo lo smalto doveva essere saltato fuori dalla scorta personale di cosmetici del sergente.

– Impressionante, Anderson – commentò infine Miles, in tono ammirato.

– È quello che lei aveva in mente, signore? – s'informò Anderson, con un sorriso orgoglioso.

– Esattamente – confermò Miles, mentre Taura lo fissava con un'espressione che rivelava una soddisfazione pari alla sua. – Che ne pensi del tuo primo balzo in un corridoio di transito? – chiese quindi.

Le lunghe labbra della ragazza ebbero un tremito, come sempre accadeva quando cercava di atteggiarle ad una smorfia riflessiva.

– In un primo tempo mi sono sentita improvvisamente in preda alle vertigini ed ho temuto di sentirmi male, finché il Sergente Anderson non mi ha spiegato di cosa si trattava.