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Sua madre, un ingegnere petrolifero che lavorava come consulente per diverse compagnie, non si era mai sposata e non voleva figli. Poi c’era stato un incidente di frontiera tra l’Iraq e l’Arabia Saudita, durante il quale era stata catturata e violentata. Mentre i rappresentanti della Texaco negoziavano la sua liberazione, Cirocco era venuta al mondo. Alcune atomiche erano state seminate nel deserto nel frattempo, e l’incidente di frontiera era ormai un lontano incidente bellico quando le truppe irano-brasiliane avevano liberato i prigionieri. Seguendo gli spostamenti della bilancia politica, la madre di Cirocco era riuscita a raggiungere Israele. Cinque anni dopo sua madre aveva contratto un cancro ai polmoni, grazie al fallout. Era sopravvissuta per altri quindici anni sottoponendosi a cure leggermente meno dolorose della malattia.

Cirocco era cresciuta in solitudine, con l’unica compagnia della madre. Aveva visto gli Stati Uniti per la prima volta a dodici anni. Sapeva già leggere e scrivere, quindi il sistema scolastico americano non riuscì a farle troppo male. La sua educazione sentimentale fu un’altra cosa. Non riusciva facilmente a crearsi amici, ma era leale fino all’inverosimile coi pochi che aveva. Sua madre era convinta che l’educazione di una ragazza, oltre che sulla danza e sul canto, dovesse basarsi anche sul karaté e sul tiro a segno; esteriormente pareva sicurìssima di sé. Lei era l’unica a conoscere le proprie paure, la propria vulnerabilità. Era il suo segreto, e lo aveva tenuto nascosto così bene da ingannare persino gli psicologi della NASA che le avevano affidato il comando di una nave.

Inutile mentire, ormai: sì, la responsabilità del comando la spaventava. Forse tutti i Comandanti erano segretamente insicuri, perché nell’intimo sapevano che non erano adatti per tutte le responsabilità che gravavano su loro. Ma non era quello il tipo di domande che ti facevano. E che importava poi se gli altri non erano atterriti? L’importante era salvare il proprio, di segreto.

Si scoprì a pensare a cos’avrebbe voluto d’altro che non fosse il comando di un’astronave. Cosa voleva d’altro?

"Ma allora perché ho assunto il comando dell’astronave, se non lo volevo? Cosa voglio? Vorrei uscire di qui. Vorrei che succedesse qualcosa."

E successe qualcosa.

Con la mano sinistra sentì una parete. Più tardi, ne sentì un’altra con la destra. Le pareti erano calde, lisce e resistenti, proprio come immaginava fossero le pareti di uno stomaco. Le intuiva muoversi oltre le sue mani.

Cominciarono a stringersi.

Adesso si trovava in un tunnel irregolare, a testa in avanti. Le pareti cominciarono a contrarsi. Per la prima volta in vita sua, provò un senso di claustrofobia. Gli spazi stretti non l’avevano mai disturbata prima.

Le pareti pulsavano, vibravano, la spingevano avanti. La sua testa si trovò contro qualcosa di freddo e duro. Si sentì schiacciare. Un fluido uscì dai suoi polmoni. Tossì, respirò, scoprì che aveva la bocca piena di sabbia. Tossì di nuovo, uscì altro fluido dai polmoni, ma adesso aveva le spalle libere. Spinse avanti la testa per non inghiottire altra sabbia. Starnutì, sputò, cominciò a respirare col naso.

Le si liberarono le braccia, poi i fianchi. Cominciò a scavare il materiale spugnoso che aveva attorno. Aveva lo stesso odore di un giorno dell’infanzia trascorso su un freddo, nudo pavimento in quello stretto passaggio in cui s’infilano gli adulti quando devono riparare un tubo. Le sembrava di avere nove anni e di scavare nel fango.

Liberò una gamba, poi l’altra. Rimase col capo chino in quella piccola sacca d’aria formata dalle sue braccia e dal torace. Respirava spasmodicamente.

La sabbia le scivolò giù per il collo, lungo il corpo, fino a riempire quasi tutto lo spazio disponibile. Era sepolta, ma viva. Doveva scavare di nuovo, ma non riusciva a muovere le braccia.

Respingendo il terrore, si costrinse ad alzarsi in piedi. Fu uno sforzo tremendo, ma la massa sopra di lei cedette.

La sua testa uscì alla luce, all’aria. Boccheggiando, sputando, tirò fuori un braccio, poi l’altro. Toccò qualcosa che sembrava erba fredda. Uscì dal buco carponi, cadde. Piantò le dita in quel terreno benedetto, pianse, si addormentò.

Cirocco non voleva svegliarsi. Fingeva di dormire. Poi aprì gli occhi di colpo, perché aveva l’impressione di precipitare di nuovo nell’oscurità mentre l’erba sembrava scomparire.

A qualche centimetro dal suo naso c’era un tappeto verde pallido di quella che sembrava erba. Aveva anche l’odore dell’erba. Quel tipo d’erba che si trova solo nei migliori campi di golf. Però era più calda dell’aria, e questo non lo capiva. Forse non era proprio erba.

Mosse attorno la mano per toccare, annusò di nuovo. Chiamala erba.

Si mise a sedere e qualcosa tintinnò, distraendola. Un anello di metallo lucido le cingeva il collo e c’erano altri anelli più piccoli alle braccia e ai piedi. Molti oggetti strani pendevano dall’anello più grande, tenuti assieme da fili. Se lo tolse dal collo e cominciò a chiedersi dove l’avesse già visto.

Era molto complicato concentrarsi. La cosa che aveva in mano era così complessa, così varia; era troppo per il suo spirito disperso.

Dopo uno sforzo, ricordò. Si trattava della sua tuta, da cui era sparita tutta la plastica e la gomma. Restava solo il metallo.

Ammucchiò gli oggetti e in quel momento si accorse di essere nuda. Non solo: sotto una pellicola di sporco il suo corpo era completamente depilato.

Erano scomparse anche le sopracciglia, e questo, chissà perché, la rese molto triste.

Nascose la faccia fra le mani e cominciò a piangere.

Cirocco non piangeva facilmente, né spesso. Non ne era capace. Ma dopo un tempo che era stato lunghissimo capì di nuovo chi era.

Adesso doveva solo scoprire dov’era.

Mezz’ora dopo si sentì pronta a mettersi in marcia. Ma subito nacquero le domande: mettersi in marcia verso dove?

La sua idea era quella di esplorare Temi, ma adesso non possedeva più l’astronave, le risorse della tecnologia terrestre. Aveva soltanto il suo corpo nudo, e qualche pezzetto di metallo.

Si trovava in una foresta composta d’erba e di un solo tipo d’alberi. Cioè: se una cosa è alta settanta metri, ha un tronco marrone e rotondo e in alto possiede cose che sembrano foglie, è un albero. Il che non significa che non sia capace di divorare un essere umano, se gli capita a tiro.

Ma non doveva preoccuparsi eccessivamente. Scarta le cose per le quali non puoi fare nulla, non agitarti troppo per le cose per cui puoi fare ben poco. E ricorda che se sarai troppo cauto come le regole della ragionevolezza vorrebbero, morirai di fame in una caverna. Quindi, per prima cosa, controllare l’aria. Poteva essere velenosa.

Trattenne un attimo il respiro: in bocca aveva un buon sapore fresco e non la faceva tossire.

Per l’acqua poteva fare ben poco. Ammesso che ne trovasse, prima o poi doveva decidersi a berla; anzi, bisognava spicciarsi a trovarla. Eventualmente, se possibile, l’avrebbe bollita; se no, l’avrebbe bevuta lo stesso, con microbi e tutto il resto.

E poi c’era il cibo, la preoccupazione maggiore. Anche se lì non c’era niente che volesse mangiare lei, come faceva a sapere se il cibo che avrebbe trovato non era velenoso o nutriente quanto il cellophane?

Esisteva sempre il rischio calcolato. Ma come si fa a calcolare un rischio quando un albero potrebbe non essere un albero?

Non sembravano proprio alberi. I tronchi erano come di marmo levigato. I rami erano alti, paralleli rispetto al suolo, e correvano per una distanza sempre uguale prima di piegarsi ad angolo retto. Le foglie, altissime, erano piatte e lunghe tre o quattro metri.

Cos’era azzardato e cos’era troppo prudente? Lì non c’era nessuna guida e i pericoli non erano certo segnalati. Ma senza un minimo d’autoconvincimento non si sarebbe potuta muovere, e lei non poteva restare ferma. Stava cominciando ad avere fame.