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Di nuovo su per la scala a pioli. Il secondo pannello girevole si aprì sull’ufficio privato del defunto Imperatore. Con sollievo di Cordelia era al buio e odorava di chiuso; sembrava che nessuno ci avesse messo piede dalla morte di Ezar, quella primavera. La console delle comunicazioni e i terminal erano staccati dalla rete, vuoti e morti come il corpo del loro padrone. Attraverso le imposte sbarrate delle finestre filtrava la prima luce grigia del mattino.

Mentre Cordelia attraversava in fretta la stanza, il bastone-spada di Kou le sbatté sulla caviglia sinistra; appeso alla cintura in quel modo avrebbe potuto dare nell’occhio. Sopra un tavolino c’era un lungo vassoio che fungeva da base a una coppa di ceramica ovale, uno dei tipici soprammobili della Residenza. Cordelia mise il bastone sul vassoio e lo sollevò a due mani, con aria solennemente servile.

Droushnakovi ebbe un cenno d’approvazione. — Lo tenga più basso, all’altezza del petto — sussurrò. — Spalle dritte, testa alta, e non ancheggi. È la prima cosa che il personale femminile deve imparare, qui dentro.

Cordelia annuì. Aprirono la porta, tesero gli orecchi ai rumori esterni ed uscirono uno dopo l’altro nel breve corridoio esterno dell’ala nord.

Due donne con qualche mansione nella Residenza e un uomo della Sicurezza che le scortava. Girarono nel corridoio centrale, e qui videro che quasi sul fondo, qualche metro prima della Scala Rosa, era di sentinella un caporale del turno di notte. L’uomo si voltò subito e li guardò avvicinarsi con attenzione, ma alla vista dell’uniforme s’era impercettibilmente rilassato. Osservò i gradi di Bothari e si portò una mano al berretto per rispondere al suo saluto quando i tre gli passarono davanti. Un momento prima di girare l’angolo della Scala Rosa, Cordelia si sentì il suo sguardo sulla schiena con tale intensità che ebbe un brivido. Stavano camminando sul filo del rasoio. Due donne sconosciute non costituivano una minaccia: c’era già una guardia a scortarle. Che la minaccia potesse venire dalla guardia era un fatto che forse non avrebbe sfiorato la mente del caporale ancora per qualche minuto.

Uscirono nel corridoio del piano superiore, quasi identico a quello sottostante. Laggiù. Dietro la quarta porta a destra, secondo il rapporto degli agenti di Illyan, c’era la stanza in cui Vordarian aveva fatto mettere il simulatore. Praticamente sotto i suoi occhi. C’erano altri ostaggi preziosi in quell’ala: scudi umani, il prezzo di ogni eventuale attentato alla sua vita coi gas o con un missile esplosivo.

Fuori da quella porta c’era di guardia un altro caporale della Sicurezza. L’uomo li guardò con aria insospettita, e avvicinò una mano alla fondina. Cordelia e Droushnakovi camminarono dritte verso di lui, tenendosi al centro del corridoio, mentre Bothari si spostava sulla loro destra.

— Buongiorno — disse il caporale, facendo un passo avanti con aria autoritaria. — Dove state andando?

— Buongiorno — rispose Bothari, alzando la mano destra al berretto. La riabbassò di colpo, trasversalmente, colpendolo al collo con violenza. L’uomo cadde contro il muro e scivolò al suolo. Lui lo afferrò per la giacca. Aprirono la porta e trascinarono la guardia dentro; poi Bothari uscì e prese il suo posto in corridoio. Drou richiuse subito la porta.

Lo sguardo di Cordelia saettò freneticamente qua e là in cerca di telecamere o sensori del sistema d’allarme. Il locale doveva esser stato la camera da letto di una delle guardie del corpo di Ezar, o forse un grosso guardaroba, perché non c’era neppure una finestra che desse sul cortile interno. Il simulatore uterino era sopra un tavolo coperto da un panno verde, esattamente al centro della stanza. Le sue luci spia brillavano ancora di un verde rassicurante; nessun maligno occhio rosso sul pannello dei controlli. Un ansito di sollievo quasi agonizzante sfuggì dalla gola di Cordelia a quella vista.

Droushnakovi si guardava attorno con aria scontenta, scuotendo la testa.

— Che c’è? — chiese sottovoce Cordelia.

— Troppo facile — borbottò la ragazza.

— Ancora non ne siamo fuori. Aspetta una mezzora per dire «facile». — Deglutì saliva, innervosita dalla stessa sensazione. Ma che importava? Arraffa e scappa. A quel punto la chiave era la velocità, non la segretezza.

Depose il vassoio sul tavolò, allungò una mano verso la maniglia del simulatore, e si fermò. C’era qualcosa di sbagliato, qualcosa di strano… si chinò a leggere i display digitali del pannello. Il monitoraggio dell’ossigeno non era neppure in funzione. E anche se la spia del fluido nutriente era verde, il livello del contenitore diceva 00.00. Vuoto.

Cordelia non poté reprimere un gemito. Scossa da un tremito lesse di nuovo i display della strumentazione. Il suo incubo peggiore si concretizzava in un’orrida realtà… l’avevano rovesciato al suolo, in uno scarico, nel cesso? Era morto rapidamente quel povero Miles, pietosamente schiacciato, o si erano divertiti a osservare la sua agonia? Forse non s’erano neppure presi la briga di guardarlo…

Il numero di serie. Leggi il numero di serie. Una speranza disperata, ma… rimise a fuoco i suoi occhi offuscati, si sforzò di concentrarsi sul ricordo. Aveva guardato più o meno distrattamente il numero nel laboratorio di Vaagen, mentre meditava su quella tecnologia e sul lontano pianeta che l’aveva prodotta. E il numero non corrispondeva. Non corrispondeva. Non era lo stesso, quello non era il simulatore di Miles! Uno degli altri sedici, usato come esca per una trappola.

Il cuore le diede un tuffo. Quante altre trappole erano state preparate? Vide se stessa correre freneticamente da un simulatore all’altro, da una stanza all’altra, da un inganno a… Sto perdendo la testa.

No. Dovunque fosse il vero simulatore, doveva essere vicino alla persona di Vordarian. Ne era sicura. Si chinò accanto al tavolo, prendendosi un momento di pausa per scacciare il sangue che le era affluito agli occhi e al cervello con tale violenza da stordirla. Sollevò il panno verde. Ecco. Un sensore a pressione. Era questa l’idea con cui Vordarian aveva completato la scena? Droushnakovi si piegò a guardare.

— Una trappola — sussurrò Cordelia. — Sollevi il simulatore e suona un allarme.

— Possiamo disattivarla con…

— No. Non occorre. Questo simulatore è solo un’esca. È vuoto, coi contatti accesi perché sembri in funzione. — Cordelia cercò di rimettere ordine nei suoi pensieri. Dobbiamo tornare indietro, giù nel sotterraneo e su fino all’altra porta segreta. Non mi aspettavo di incontrare Vordarian, stanotte. Ma stai pur certa che lui sa dov’è Miles. E quando avrà una pistola puntata alla testa lo sapremo anche noi. Ora abbiamo un problema di tempo. Se qui è già scattato un allarme…

Nel corridoio risuonarono dei passi in corsa e delle voci secche. Ci fu il vibrante, secco ronzio degli storditori. Con una selvaggia imprecazione Bothari aprì la porta e si gettò dentro. — Ci hanno scoperto! Stanno arrivando dalle scale!

Se qui è già scattato un allarme, è la fine, completò il pensiero Cordelia, in una vertigine d’incredulità. Niente finestre, una sola porta, e la loro via d’uscita ormai irraggiungibile. La trappola di Vordarian aveva funzionato.

— Non ci arrenderemo, milady. — Droushnakovi impugnò lo storditore. — Se dobbiamo morire, combatteremo fino alla morte.

— Sciocchezze — sbottò Cordelia. — Qui non c’è niente da prendere in cambio della nostra vita, se non la vita di qualche galoppino di Vordarian. Non vale la pena.

— Vuol dire che dobbiamo lasciarci catturare?

— Il suicidio gratuito è uno spreco. Io non rinuncio. Aspetteremo l’occasione di ottenere qualcosa; se ci facciamo sparare, non capiterà facilmente. — Se però su quel tavolo ci fosse stato il simulatore di Miles… sì, rifletté Cordelia, lei sarebbe stata abbastanza egoista da tentare una sortita e rischiare la vita dei due compagni per quella di suo figlio. Ma non era abbastanza pazza da rischiarla in cambio di niente. Non era ancora diventata così barrayarana.