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Illyan parve emettere un fischio fra i denti, ma alla vista del cipiglio di Vorkosigan tornò subito serio. — Sì, signore. Va bene. Altri luoghi a cui precludere l’accesso?

— Non per il momento. Basterà l’Edificio Sei.

— Signore… — disse il Capo della Sicurezza dell’OMI dalla sua metà dello schermo. — E se… il generale Vorkosigan rifiutasse di fermarsi all’ordine del piantone?

Cordelia non faticava a immaginare la faccia di un sottufficiale di guardia a cui sarebbe toccato il compito di fermare un generale Vor che entrava a passo di marcia.

— Se i suoi uomini non sono fisicamente all’altezza d’impedire l’accesso a un vecchio, possono usare i mezzi a loro disposizione, inclusi gli storditori — disse stancamente Aral. — Non c’è altro. Grazie, signori.

Il Capo della Sicurezza dell’OMI annuì e tolse la comunicazione. Illyan esitò ancora un poco, dubbioso. — Sarà una buona idea, data la sua età? Uno storditore potrebbe causargli un infarto. E comunque non la prenderà bene, quando si sentirà dire che c’è un posto in cui non può entrare. Fra l’altro, perché…? — Lasciò sospeso nell’aria quell’interrogativo finché non vide che lo sguardo di Vorkosigan si faceva gelido. — Sì, signore. — Salutò e chiuse il contatto.

Aral si appoggiò allo schienale, continuando a fissare pensosamente lo schermo spento. Quando si girò verso Cordelia un angolo della sua bocca si curvò in un sorriso, fra ironico e sofferente. — È un vecchio — disse alla fine.

— Un vecchio che ha appena cercato di uccidere tuo figlio, o ciò che ne resta.

— Capisco il suo punto di vista. Capisco le sue paure.

— Anche le mie?

— Sì. Di entrambi.

— Se si arrivasse a un punto di rottura… se lui cercasse di tornare là…

— Lui è il mio passato. — Aral la guardò negli occhi. — Tu sei il mio futuro. La vita che mi resta appartiene al futuro. Non dubitare mai di questo.

Cordelia fece un sospiro e si massaggiò il collo dolorante. Si sentiva stanca.

Koudelka bussò alla porta e mise dentro la testa. — Signore? Il segretario del ministro vorrebbe sapere…

— Fra un minuto, tenente. — Vorkosigan gli accennò di restare fuori.

— Fammi evadere da qui — disse sottovoce Cordelia.

— Ti senti prigioniera?

— Ospedale Militare Imperiale, Sicurezza Imperiale, Servizio Imperiale… mi sta venendo un grave attacco di Claustrofobia Imperiale. Andiamocene a Vorkosigan Surleau per qualche giorno, Aral. Laggiù ti riprenderai meglio, e qui i tuoi poveri schiavi tireranno un po’ il fiato. — Accennò col capo verso il corridoio. — Solo tu e io, come ai vecchi tempi. — Avrebbe funzionato? E se fossero tornati sulla scena della loro breve estate felice soltanto per scoprire che quella scena non esisteva più? Annegata nelle piogge di quell’autunno… Cordelia sentiva una disperata nostalgia di se stessa, del suo equilibrio perduto, di un punto solido intorno a cui vivere.

Lui inarcò le sopracciglia. — Splendida idea, mia cara capitana. Porteremo il vecchio con noi.

— Credi che sia il caso di… mmh, sì, capisco. D’accordo, e speriamo bene.

CAPITOLO DECIMO

Cordelia si svegliò lentamente, nel piacevole tepore della lussuosa coperta imbottita di piuma, e si stiracchiò. L’altra metà del letto era vuota. Toccò l’incavatura rimasta nel cuscino: vuota e fredda. Aral doveva essersi alzato in silenzio già da qualche ora. Non le importava; era bello dormire fino a tardi e risvegliarsi senza la tensione che le aveva attanagliato la mente e il corpo per tanto tempo. Quella era la terza notte di fila in cui il sonno la riposava davvero, accanto alla calda presenza del marito, entrambi finalmente liberi dall’ingombro dei tubi dell’ossigeno sulla faccia.

La loro camera da letto, all’angolo del primo piano della vecchia casa di pietra più volte rimodernata, quel mattino era fresca e silenziosa. Una delle finestre si apriva sul vasto prato verde che scendeva fino al lago, ancora immerso nei veli di nebbia che offuscavano la vista del paese sulla riva opposta. L’umidità delle mattinate invernali non la disturbava; era dolce sentirsene difesa e protetta sotto le morbide coltri. Quando si alzò a sedere, la rosea cicatrice del suo addome le inviò una fitta di dolore, ma se l’era aspettato e non la infastidì.

Droushnakovi socchiuse la porta e mise dentro la testa. — Milady? — chiamò sottovoce, ancor prima di vedere che era già sveglia. Seduta sul bordo del letto Cordelia agitò i piedi nudi avanti e indietro, per far circolare il sangue.

— Colazione — annunciò la ragazza bionda. Dal largo vassoio che aveva fra le mani si spandevano odori caldi e promettenti. Portava uno dei suoi vestiti più comodi: una gonna larga di lana grigia, ricamata a fiori, una blusa azzurra anch’essa di lana, e una camicia bianca. Il rumore dei suoi passi echeggiò solidamente sui listelli di legno mentre attraversava la stanza, poi fu smorzato dal tappeto tessuto a mano.

— Oggi ho appetito — constatò sorpresa Cordelia, annusando l’odore. — È la prima volta da tre settimane. — Tre settimane, tanto era trascorso da quella notte d’orrore in Casa Vorkosigan.

Drou sorrise e appoggiò il vassoio sul tavolo davanti alla finestra volta a est. Cordelia mise vestaglia e pantofole e fece rotta verso la tazza di caffè fumante. Drou le era venuta incontro, pronta a sostenerla con le sue mani forti, ma Cordelia non si sentiva più le ginocchia deboli come gli altri giorni. Sedette senza alcun aiuto e prese le tartine di pane caldo appena imburrato; c’era anche una caraffa dello sciroppo che i barrayarani ottenevano bollendo la resina di un albero, e il caffè espresso era un’ottima miscela di produzione locale.

— Ne vuoi una tazzina, Drou? Hai fame? — Cordelia la invitò a sedersi con un gesto. — Che ore sono?

La guardia del corpo scosse il capo. — No, grazie, milady. Ho già fatto colazione da un pezzo. Sono le undici.

Droushnakovi era stata una parte dello sfondo che lei aveva dato per scontato, sia all’ospedale che lì in quei giorni a Vorkosigan Surleau. Cordelia si scoprì a guardarla davvero per la prima volta da quando aveva ricominciato a sentirsi viva. La ragazza appariva energica e attenta come sempre, ma in lei c’era una sfumatura di tensione. Cordelia si rese conto che poteva notarlo solo perché ora si sentiva meglio; erano particolari a cui faceva caso quasi egoisticamente, perché avere intorno gente sana e di buonumore la aiutava molto a tenersi su di morale.

— Oggi mi sento meglio — disse. — Ieri ho parlato per telefono col capitano Vaagen. Pensa di aver visto un accenno di calcificazione nelle ossa del piccolo Piotr Miles. È incoraggiante, se uno sa interpretare le parole di Vaagen. Non dà false speranze, ma di quel poco che dice ci si può fidare.

Drou annuì; poi parve rendersi conto che stando in piedi non la metteva a suo agio e sedette. Si strinse nelle spalle. — Quei simulatori uterini mi sembrano così strani, così alieni.

— Non sono più strani di quello che la natura fa funzionare dentro di noi, se ci pensi bene. — Cordelia sorrise. — Io ringrazio Dio se la tecnologia ci aiuta a migliorare l’andamento naturale delle cose, riprogettandole in modo più razionale.

— Milady… lei come si è accorta d’essere incinta? Ha saltato una mensilità?

— Un periodo mestruale, vuoi dire? No, in effetti. — Ripensò a quell’estate, a quella stessa stanza calda di sole, al letto molto più disfatto di com’era adesso. Presto lei e Aral avrebbero avuto i rapporti di allora, anche se privi di quel qualcosa in più che era stato il loro obiettivo di genitori. — L’estate scorsa, mio marito e io credevamo che avremmo vissuto qui per sempre. Lui aveva chiesto di andare in pensione, io avevo dato le dimissioni… non vedevamo ostacoli. Io stavo uscendo dall’età migliore per partorire con il metodo organico, che sembra l’unico conosciuto su Barrayar, e volevamo cominciare subito. Così, un paio di settimane dopo il matrimonio, mi feci togliere l’impianto contraccettivo. Per un poco mi sentii quasi in colpa. A casa mia non avrei potuto levarmelo senza un permesso governativo.